Siamo tutt* per l’immediata liberazione e assoluzione per Higui!

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Sono passati diversi mesi,ma higui è ancora reclusa. La sua colpa?  Essersi difesa da un tentativo di stupro correttivo di 10 uomini. Lei è  indagata per omicidio colposo, loro liberi di girare indisturbati. In un momento in cui tutto il movimento femminista in argentina si sta  interrogando sull’inefficacia dell’inasprimento delle pene come  deterrente contro la violenza machista e patriarcale, ci troviamo di  fronte a una storia di ordinaria violenza istituzionale in un paese in  cui – non molto diversamente da quello che accade qui- ogni tre giorni  viene ammazzata una donna e nulla sembra cambiare.

La rabbia è la nostra forza, la solidarietà e l’autodifesa le nostre armi.
Higui libera, tutte libere.

Riceviamo e con piacere diffondiamo tradotto il comunicato delle compagne di Higui che hanno lanciato per lo scorso 17 maggio, giornata contro l’omolesbotransfobia, una giornata nazionale per la liberazione e assoluzione di Higui:

Eva Analia de Jesus, detta Higui, è ingiustamente detenuta da sette mesi per essersi difesa da un attacco sessuale di un gruppo di uomini violenti con il fine di correggere il suo orientamento sessuale. Dal 16 ottobre 2016 si trova privata della sua libertà nella sezione distaccata del carcere di San Martin, nella periferia di Buenos Aires, in attesa di processo. Da fuori, familiari, organizzazioni sociali e femministe esigono la sua liberazione sottolineando l’ingiustizia dell’imputazione a suo carico e anche le molteplici irregolarità nella sua causa e le violenze che sempre derivano dalla reclusione.
Higui è accusata dalle stesse istituzioni che dovrebbero proteggerla dalla violenza machista che ha subito. Attaccata da uomini che non sono sotto indagine, non sono imputati o detenuti con l’accusa di “tentata violenza sessuale aggravata”; abbandonata dai poliziotti che vedendola incoscente e ferita a causa dell’aggressione, non hanno pensatoinnanzitutto alla sua salute, bensì l’hanno derisa, interrogata e reclusa; dimenticata dal potere giudiziario che la accusa di “omicidio colposo”, non dispone la sua liberazione ma anzi si limita ad indagare solo su di lei; dimenticata anche dagli operatori di “giustizia”che non adempiono alle loro funzioni e che rivittimizzano chi reagisce per leggittima difesa ad un tentativo di stupro correttivo di gruppo già preceduto da minacce. Situazione questa che giàdi per sè dimostra la situazione di vulnerabilità di Higui.
Higui non solo è detenuta, ma porta lo stigma di chi è colpevole “fino a prova contraria” che costituisce una violazione dei diritti umani. Un’operazione giudiziaria sistematica contro quelle che si ribellano alle violenze machiste e che consolida e rinforza le differenti forme di oppressione – sia di classe che eteropatriarcali – agite sulle lesbiche, le travesti, le persone trans e le donne.
Tutto questo non ci lascia in silezio, la rivogliamo subito per le strade dove manifestiamo per la sua liberazione e assoluzione, perchè è li che si conquistano e difendono i diritti. Non vogliamo più perdite di tempo né che le nostre storie di vita continuino a trasformarsi in “casi”, in fattispecie di reato che ricadono in un modo o nell’altro sulle più povere.
Ci vogliamo vive e libere, sono nostri diritti

Il prossimo 7 giugno Higui compirà 43 anni e spera di festeggiare con i suoi parenti e le compagne che la vogliono libera.

Per questo esigiamo:

– Libertà immediata e assoluzione per Higui, arrestata per essersi difesa dall’odio lesbofobico!
– Indagini sull’aggressione che ha subito e punizione per i responsabili.
– Accesso al patrocinio gratuito per le vittime di violenza machista.
– Formazione per tutti gli operatori giudiziari in materia di genere e orientamento sessuale.
– Risarcimento per tutte le lesbiche, travesti, persone trans e donne vittime del machismo e rivittimizzate dallo Stato.

Toccano una, rispondiamo tutte!
#LibertadParaHigui

Commissione per la libertà e assoluzione di Higui

Adesioni a : Justiciaporhigui@outlook.es

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Del sessismo nei movimenti e autonomia transfemminista…ovvero il Re è stronzo!

Con piacere diffondiamo questo contributo del Sommovimento NazioAnale sul tema dell’autonomia transfemminista

Quando parliamo di sessismo nei movimenti immediatamente il pensiero e la memoria corrono a i vari episodi che tutte e tuttu nella nostra vita ‘militante’ prima o poi ci siamo trovate a subire o a cui abbiamo assistito: macro e micro violenze quotidiane – fisiche, psicologiche o verbali – episodi più o meno evidenti ed eclatanti, aggressioni più o meno esplicite e ‘giustificate’.
Queste sono le prime cose che ci vengono in mente e che agiscono, tendenzialmente, a un livello individuale o comunque ristretto: una singola donna aggredita, alcune compagne sminuite e maltrattate, un ‘compagno che sbaglia’, un’assemblea dalle pratiche fastidiosamente machiste.
Ovviamente, tutte riconosciamo il portato strutturale di questi comportamenti e atteggiamenti: stiamo imparando a riconoscere la violenza anche quando la vediamo nei nostri spazi politici e ci stiamo dotando di pratiche per combatterla.
Ma c’è anche un altro aspetto del sessismo in ambito di movimento, se possibile ancora più subdolo e radicato, ossia l’attacco e la delegittimazione costante che i movimenti, le tematiche, le realtà femministe e transfemministe ricevono da chi dovrebbe essere nostro
alleato\a e complice.
Quante volte accade che le questioni di genere vengano relegate a questioni delle compagne?
Quanto spesso ci troviamo davanti a compagni/e – avuls* da qualsiasi percorso di genere – spiegarci com’è che si fa Politica con la P maiuscola?
Quante volte le pratiche nuove ed orizzontali che proviamo a costruire vengono continuamente riportate ad una prassi ortodossa del buon militante, preconfezionata da percorsi e movimenti dalle modalità machiste?
Quante volte la risoluzione dei conflitti all’interno del movimento riproduce le stesse pratiche violente, che vanno dall’invisibilizzazione allo scontro machisa tra gruppi?
Quanto spesso le soggettività femministe e transfemministe vengono schiacciate e sovradeterminate dalle logiche delle strutture organizzate, con conseguente appropriazione e strumentalizzazione delle nostre lotte?
Noi crediamo che questo avvenga talmente spesso che fatichiamo a rendercene conto, fino all’episodio dirompente che ci svela che il Re è stronzo…e a volte pure la Regina!
Crediamo fortemente nei percorsi non identitari, nei quali ci si metta in discussione e si arricchisca il proprio agire a partire da sé e dall’autocritica collettiva. Percorsi come Non Una Di Meno che ci costringono a confrontarci sulle nostre differenti visioni e a
riconoscere le oppressioni e i privilegi di ognun* per creare alleanze e reti.
Crediamo però che questi percorsi – femministi e transfemministi – non possano prescindere dalla de-machistizzazione delle nostre pratiche, dall’abbandono perpetuo delle modalità e delle logiche a cui siamo da sempre abituate\i. Crediamo nella centralità
di una lettura del reale femminista, transfemminista e intersezionale, che rifiuti pratiche di egemonizzazione e gerarchie delle lotte.
Non vogliamo essere un campo di battaglia per chi si rifiuta di partire da sé e vede gli spazi di movimento come un ring nel quale portare a casa il proprio ‘pezzetto’ di trofeo. Ci rifiutiamo di aderire a queste logiche, e questo è un punto politico importante. Crediamo che ognun* dovrebbe uscire da questi spazi trasformat*, pront* a cambiare idea, per crescere insieme e non con l’idea di dover far passare una propria linea preconfezionata e statica.
Ma non siamo figlie dei fiori, siamo anzi ben pronte al conflitto, dentro e fuori i nostri spazi, vogliamo contrastare chi pretende di appropriarsi superficialmente dell’etichetta di femminista, transfemminista, queer senza mai mettere in discussione la propria identità e i meccanismi con cui ci si replica e riproduce politicamente secondo uno schema eteronormato e machista. Crediamo che questi siano i parametri minimi per creare fiducia e complicità in un movimento femminista e transfemminista, per stringere alleanze, per essere complici e solidali. Siamo stanche di essere ancora delegittimate, manipolate e neutralizzate negli spazi di movimento, che troppo spesso ci considerano una mera quota rosa o frocia, e che quasi mai si lasciano contaminare dalle nostre pratiche e assumono le analisi di genere come fondanti del proprio discorso politico.
Crediamo che in questo momento sia fondamentale rafforzare le letture e le pratiche femministe e transfemministe e renderle attraversabili da chiunque. Dobbiamo creare spazi fisici, virtuali e mentali avulsi dalle logiche delle aree politiche predeterminate nei contenuti e nelle pratiche.
Dobbiamo autorganizzarci e rafforzare i processi di soggettivazione femminista e transfemminista, e non invece essere oggetto di teorizzazioni altrui. Le donne, le frocie, le compagne, le queer favolose non hanno bisogno dei maschi alfa che dettano la linea
politica sul mondo e sui percorsi di genere -occupando fisicamente e verbalmente i nostri spazi – senza mettere mai in discussione il proprio ruolo di potere nel mondo e negli spazi politici.
Come femministe e transfemministe non siamo un’identità o un’area monolitica e compatta, e ce lo rivendichiamo!
Questo non ci indebolisce ma potenzia le possibilità di connessione e intreccia le lotte che ognun* di noi porta avanti.
Anche noi dobbiamo continuare a praticare costantemente un’autocritica a partire dai ruoli che ci limitano, dal potere che ci tenta, e soprattutto dai nostri privilegi di persone bianche che hanno la possibilità di muoversi più o meno liberamente, che riescono più o
meno a fare i conti con la propria precarietà, cercando di ripensare i tempi e modi della militanza, creando spazi attraversabili e accoglienti che non siano escludenti anche dal punto di vista materiale per tutt* coloro che non hanno i nostri stessi privilegi.
Allo stesso modo non vogliamo essere schiacciate – come troppo spesso accade ai movimenti sociali – nelle logiche di asservimento al potere e alle istituzioni, alla logica del Padrino o del Santo Patrono, al meccanismo del favore e del compromesso o – al contrario – della dimostrazione di forza a tutti i costi, stabiliti da criteri eteromachisti e eteroparaculi.
Anche per tutto questo crediamo che spazi come le consultorie transfemministe queer possano essere luoghi – fisici e non – da cui ripartire, rafforzarsi e riconoscersi a vicenda.

 

Link: https://sommovimentonazioanale.noblogs.org/post/2017/05/03/del-sessismo-nei-movimenti-e-autonomia-transfemminista-ovvero-il-re-e-stronzo/

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Minniti, Orlando, Cirinnà – questo triangolo non ci va! Il sistema delle frontiere e la violenza sui corpi

Volentieri diffondiamo un contributo del Sommovimento NazioAnale sui recenti decreti Minniti/Orlando ormai convertiti in legge.

La recente approvazione e conversione in legge dei due decreti-legge su immigrazione (d.l. n. 13/2017, convertito nella legge n. 46/2017) e sicurezza urbana (d.l. n. 14/2017, convertito in legge non ancora pubblicata) impongono la necessità di una riflessione in chiave transfemminista queer sull’accelerazione securitaria e repressiva che l’attuale Governo, in linea di assoluta continuità con quelli precedenti, sta attuando sui corpi di tutti quei soggetti non normalizzabili e non riconducibili a un’etica di Stato.
Numerose sono state le analisi dei contenuti specifici dei due decreti: quello che manca è un’analisi a partire da un posizionamento femminista e transfemminista dell’oppressione specifica che il sistema delle frontiere e del decoro urbano esercitano sulle nostre vite.

Ovviamente questa necessità di analisi non può essere soddisfatta esclusivamente da questo documento – che è comunque frutto di discussioni collettive – ma è un tema che vorremmo interessasse in maniera trasversale tutti i tavoli che compongono la mobilitazione di “Non Una di Meno” soprattutto alla luce della nostra profonda convinzione che il Piano Femminista Contro la Violenza debba fungere da manifesto politico di rivendicazione e lotta in una prospettiva di lettura più ampia dell’esistente, e non debba essere solamente un documento tecnico di istanze da presentare alle istituzioni.

L’analisi dei due decreti-legge non può che procedere congiuntamente: seppur le tematiche che essi trattano sembrino all’apparenza differenti, in realtà la logica di fondo rimane la stessa. Ovvero, una stretta securitaria finalizzata alla selezione minuziosa di chi sta dentro e chi sta fuori, di chi è assimilabile ad un ideale fittizio di normalità, produttività, docilità, decoro e chi deve essere respinto ai margini della società, invisibilizzato e, nel caso, espulso.

In particolare, con il decreto sulla sicurezza urbana viene messa a sistema la strategia di “pulizia” delle città e dei territori già fomentata dalle politiche di gentrificazione e di promozione di un decoro – concetto ormai caro tanto alle istituzioni quanto ai sedicenti cittadini per bene – che non può che passare per la rimozione in senso letterale e figurato di tutte quelle persone considerate indecenti, immorali, povere e socialmente pericolose.

Si va restringendo costantemente la platea dei soggetti socialmente accettabili. Questa tendenza si è resa evidente nel tempo: basti pensare alle proposte di zoning che molte amministrazioni comunali hanno tentato di implementare al fine di relegare il lavoro sessuale in zone periferiche della città lontano dall’attraversamento quotidiano delle persone, costringendo le/i sex workers a lavorare in condizioni di maggior invisibilità e rischio, dovuto anche alla presenza stile check-point delle forze dell’ordine deputate a tutelare la pubblica morale colpendo le/i sex worker e allontanandole dalle reti di solidarietà e sostegno; passando per l’ampio ventaglio di misure repressive a disposizione delle autorità pubbliche che vanno dai frequenti fogli di via al “daspo urbano” che il suddetto decreto appalta ai sindaci per ammonire coloro che attuano condotte considerate anti-sociali (accattonaggio, prostituzione esplicita, spaccio, imbrattamento etc.); fino ad arrivare al recente episodio di molestie e allontanamento di due ragazze lesbiche che si baciavano ad opera dei militari impiegati nella famigerata operazione “strade sicure” – operazione di cui non dimentichiamo faceva parte il miliare stupratore de L’Aquila – avvenuto a Napoli, città governata dall’illuminato sindaco De Magistris in un paese che si è fregiato del titolo di civiltà offerto dalle unioni civili approvate nel maggio 2016 e che poche settimane fa ha proceduto allo sgombero di migliaia di persone rom rinchiuse in un cie a cielo aperto nel totale silenzio mediatico.

Questa tendenza è ancor più evidente nel secondo decreto Minniti riguardante le misure di contrasto all’immigrazione irregolare. Già la denominazione ‘irregolare’ – in riferimento ai migranti cosiddetti economici – in contrapposizione ai migranti ‘regolarizzabili’, ossia coloro che risultano idonei ad accedere potenzialmente ai percorsi di accoglienza e protezione, è fuorviante: come donne, lesbiche, frocie da sempre siamo abituate ad essere categorizzate in base alle nostre identità tra ‘perbene’ e ‘permale’, ove chi è ritenuta perbene è degna di diritti, visibilità, mentre chi è permale è marginalizzabile e espellibile. Cioè è perbene chi si adatta al ruolo che la società ha ritagliato: se sei una donna devi essere in grado di provvedere al lavoro di cura e ai canoni morali che ci si aspetta. Se sei una migrante allo stesso modo devi anche soddisfare le aspettative riguardo l’integrabilità, la messa a valore -dalle migranti sfruttate nelle campagne, a quelle che assolvono al lavoro di cura nelle case, a le migranti costrette al lavoro ‘volontario’ gratuito nei percorsi della cosiddetta accoglienza -e il ruolo di vittima che ti è stato cucito addosso. Se sei una frocia devi essere rispettabile, ossia non appariscente, non eccentrica rispetto all’ideale eteronormato delle relazioni affettive e sessuali: frocia sì ma monogama e disposta ad unirsi civilmente. Non è un caso che il partito e la senatrice, Monica Cirinnà, che hanno spinto per l’approvazione delle unioni civili, siano gli stessi che hanno scritto e approvato i due decreti Minniti.

Non è un caso che nella stessa legislatura siano state approvate sia la legge Cirinnà, con il suo carico retorico riguardo la civiltà del nostro paese – in continua contrapposizione con i discorsi islamofobi e criminalizzanti sui migranti in arrivo – e i decreti sull’immigrazione e il decoro urbano, che insieme restituiscono un quadro chiaro di quali sono i requisiti per essere assimilati verso un ‘dentro’ o essere espulsi verso un ‘fuori’.

Questa retorica della civiltà e degli ‘italiani brava gente’ passa attraverso la legge sulle unioni civili per arrivare a blandire il discorso sull’accoglienza di chi è più debole e vittima. Tralasciando di approfondire qual è il ruolo dell’Europa nelle dinamiche migratorie (espropriazione, colonialismo, guerre, sfruttamento) ci inseriamo nel ruolo dei benefattori che accolgono i\le più bisognose. Mentre il decreto Minniti veniva convertito in legge, gli esponenti del governo erano in tv a ribadire quanto è bella l’accoglienza per chi ha diritto ma che gli altri devono stare fuori. Non è un caso che un decreto così repressivo e limitativo sulla possibilità di transitare o restare nel nostro paese sia stato fatto passare per un provvedimento che velocizza le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, quando nei fatti riduce le possibilità di richiedere asilo in Italia e nel contempo aumenta le misure repressive verso chi non ha i requisiti per richiederla. Bisogna evidenziare anche come il ruolo di chi lavora nel business dell’accoglienza si vada ancor più a esplicitare come un ruolo di controllo attraverso l’equiparazione degli operatori\operatrici a pubblici ufficiali. Questo ci chiama in prima persona a riflettere ed analizzare il nostro privilegio in quanto cittadine\i, e il nostro ruolo di potere quando ci rapportiamo a persone senza documenti. Occorre trovare i terreni di complicità e le lotte comuni ma anche riconoscere le differenze e i diversi posizionamenti tra le persone in base non solo al genere o all’orientamento sessuale ma anche in base all’accesso ai diritti, ai servizi, alla classe di appartenenza, e alla provenienza\razializzazione\status giuridico. Rifiutiamo la divisione tra migranti economici ‘cattivi’ e rifugiati ‘buoni’, senza però appiattire il soggetto migrante in un corpo unico che non tenga in considerazione le caratteristiche di cui sopra, la molteplicità di oppressioni che si intersecano, e i diversi bisogni e desideri di ognun*.

Il sistema delle frontiere, per come è strutturato attualmente, si configura come un sistema stratificato di livelli di oppressione che, a partire dai paesi di origine e transito dei flussi migratori, si articola fin dentro alle città e ai territori, imponendo continue violenze e coercizioni sui corpi delle donne migranti e delle soggettività queer che attraversano le frontiere. Gli accordi di cooperazione bilaterale e multilaterale che l’Italia e la UE intessono con i paesi terzi, creano delle zone di stasi e transito oltre il Mediterraneo, luoghi di violazione della libertà di movimento, esponendo tali soggetti – che ipocritamente vengono denominati dal diritto nostrano, europeo e internazionale come vulnerabili – a violenze, stupri e ricatti di ogni tipo. La denuncia che le istituzioni fanno a gran voce delle violenze perpetrate dai cosiddetti “smugglers” o trafficanti di esseri umani, sono uno specchietto per le allodole finalizzato a celare le violenze sistemiche che vengono agite prima, durante e dopo l’arrivo sul territorio europeo sui corpi delle persone che migrano, con la piena connivenza dell’establishment politico. La seconda frontiera è quella esterna della UE, oramai completamente militarizzata tramite – ma non solo – la creazione degli hotspot, o punti di crisi, ovvero strutture di detenzione chiuse localizzate in Italia e Grecia dove vengono raccolte le persone appena arrivate ai fini dell’identificazione e della registrazione nelle banche dati europee e nazionali. Qui le esigenze di controllo e sicurezza – ormai una cantilena che fa parte del linguaggio politico dei più – si affermano in spregio di ogni retorica dei diritti umani: centinaia di persone vengono ammassate in strutture fatiscenti e costrette a sottoporsi al fotosegnalamento coatto. Il decreto minniti ha recentemente previsto la detenzione nei nuovi CPR per chiunque rifiuti tale procedura: è in questi luoghi che inizia la classificazione arbitraria tra chi è meritevole di protezione e chi viene bollato come migrante economico, spesso sulla base del paese di origine e con il supporto delle autorità consolari che illegittimamente vengono accolte nei porti per supportare le procedure di identificazione.

E’ questo sistema che causa l’aumento esponenziale delle richieste d’asilo: se l’unica alternativa alla deportazione è presentare domanda di protezione internazionale, appaiono quantomeno naif le lacrime di coccodrillo del ministero dell’interno e della giustizia sull’impossibilità di gestire un aumento esponenziale delle domande di asilo.

Chi riesce in qualche modo a rimanere in Italia – in quanto irregolare o in attesa del responso delle Commissione territoriali – non ha comunque vita facile, soprattutto se non conforme ai parametri cisnormativi. Per le/i richiedenti asilo infatti si apre la fase di colloquio in commissione territoriale: un terzo grado di fronte a figure istituzionali in cui la vita delle persone viene scandagliata e al richiedente spetta in toto l’onere della prova. Sei frocio? allora dimostrami quanto soffri nel tuo paese per questa cosa. Fammi entrare stile Grande Fratello nelle tue relazioni, nelle violenze che hai subìto. Fammi vedere il tesserino arcigay così forse una briciola di protezione te la concedo. Hai subito violenza nel tuo paese in quanto donna? In quanto vittima di tratta? Raccontami i particolari della tua esperienza, descrivimi le facce dei tuoi carnefici, raccontami come ti hanno fatto sentire quelle violenze. Ah ma sei stata stuprata una sola volta? Mmmmh, allora forse stai un pò esagerando, quasi quasi ti meriti una bella deportazione. Però se mi aiuti a trovare chi ti sfrutta, chi ti costringe a prostituirti, se mi fai il nome e mi mostri pure una foto può darsi che un permesso di soggiorno riesci a strapparlo.

Questo sistema è avvilente, degradante, una vittimizzazione secondaria in piena regola. Non viene lasciato alcuno spazio all’autodeterminazione e all’autonarrazione delle persone: tutto viene etichettato, sottoposto a controllo e incasellato in categorie legittimate da una qualche legge italiana o europea. Ovviamente non tutte le violenze sono uguali: sono molteplici i casi di donne non italiane che si recano alla polizia per denunciare le violenze del proprio compagno e finiscono in un CIE/CPR perché senza documenti. In quel caso che fine fanno i proclami dello stato contro la violenza sulle donne? Di che donne parliamo? Di che violenza?

Per non parlare della detenzione nei CIE/CPR. Ha fatto scalpore la vicenda di Adriana, la donna trans con il permesso di soggiorno scaduto finita nei CPR di Brindisi e poi di Caltanissetta e isolata in sezioni speciali per “proteggerla” dalle violenze degli altri detenuti. Adriana è stata segnalata alle forze dell’ordine perché scambiata per una prostituta. Lo stigma della puttana ha colpito ancora. Controllata e trovata col permesso di soggiorno scaduto, è stata rinchiusa nel CIE, dove per non essere deportata è stata costretta a richiedere la protezione, nonostante viva in Italia da decenni, da quello stesso sistema che l’ha colpita in quanto trans. È lo Stato che crea la domanda e l’offerta di ‘protezione’ come lo fa per lo sfruttamento e l’ingresso e selezione di forza lavoro. C’è chi ha chiesto il suo trasferimento nel CIE di Ponte Galeria a Roma (l’unico ad avere una sezione femminile), chi ha chiesto l’istituzione di sezioni speciali. Quello che è sicuro ma che evidentemente va ribadito è che rifiutiamo di pensare che sia legittimo rinchiudere delle persone in gabbie per il solo fatto di aver attraversato un confine. Il sistema dei CPR e delle prigioni – dove le identità vengono negate, spezzate e disprezzate, ad esempio attraverso la negazione delle terapie ormonali o l’isolamento in celle container – non può essere umanizzato, riformato o migliorato. Va abolito e distrutto. Così come va abolito e distrutto qualsiasi sistema di controllo, infantilizzazione e vittimizzazione delle vite altrui, delle vite di quelle persone che vengono costrette a narrarsi nel modo in cui piace a chi detiene un privilegio ineludibile -ovvero il privilegio bianco – per poter rosicchiare il “diritto” di spostarsi, cambiare paese, inventarsi una nuova vita altrove. Cosa che noi cittadin* europe* facciamo in continuazione, ma lo chiamiamo cosmopolitismo.

Il link al testo: https://sommovimentonazioanale.noblogs.org/post/2017/05/03/minniti-orlando-cirinna-questo-triangolo-non-ci-va-il-sistema-delle-frontiere-e-la-violenza-sui-corpi/

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Sex work is work!

“Dobbiamo essere forti, dobbiamo essere militanti, dobbiamo essere pericolose. Dobbiamo renderci conto che ‘Cagna è bella’ e che non abbiamo nulla da perdere. Niente di niente.”

Con questa frase, tratta dal manifesto CAGNA del 1968, abbiamo aperto uno dei primi comunicati scritti come Cagne Sciolte, dopo aver liberato uno spazio in Via Ostiense a Roma, nel 2013.

Abbiamo iniziato la nostra riflessione a partire dalla riappropriazione di un termine dispregiativo, cagna, insulto sessista rivolto almeno una volta a tutte noi, per risignificarlo, per farne un elemento di forza e di rifiuto di qualsiasi norma imposta dal sessismo e dal patriarcato su di noi, sulle nostre vite, sui nostri corpi e desideri. Non vogliamo essere belle, carine, sistemate, pettinate ed educate per forza, non vogliamo essere alla ricerca del principe azzurro o dell’amore eterno, non vogliamo limitare nè il numero di persone che ci portiamo a letto nè quello che decidiamo di farci sotto le lenzuola…o sul tavolo o nel bagno di un bar.

E allora si, siamo cagne, perchè ben diverso è sentirselo urlare dal maschione di turno o urlarlo con le tue sorelle intorno, facendone un grido di lotta, uno strumento di ribellione e di riconoscimento con le altre. Il processo che ci porta a definirci cagne non è così diverso da quello che ha portato i gay a riappropriarsi del termine frocio, i soggetti razzializzati del termine negro e le sex workers del termine puttana.

Per questa ragione ci teniamo oggi a prendere parola ed esprimere solidarietà a tutt* coloro che lavorano nell’industria del sesso ed alle lotte per i loro diritti.
Crediamo nell’autodeterminazione di tutte, tutti e tuttu e anche se sappiamo che la liberazione di ognun* e di tutt* non può passare per il lavoro -nessun tipo di lavoro- non crediamo che fare la sex worker renda più schiave che fare la badante, la cameriera, la babysitter, l’operaia o la brava moglie di casa che rinuncia a se stessa per il bene di figli, mariti, padri, cani e gatti. Crediamo nella libertà di ognun* di scegliere come gestire il proprio corpo e la propria sessualità e riconosciamo come strumento fondamentale della nostra lotta uno dei grandi insegnamenti del femminismo: partire da sé, che per essere più precis* significa partire dalla PROPRIA definizione di sè, riconoscendo come oppressione ed invisibilizzazione qualsiasi definizione che venga imposta da altr*. Sono io ed io soltanto che scelgo se e quando definirmi come vittima o sopravvissuta, santa o puttana, bisognosa d’aiuto o pronta a reagire.

Pensavamo non ci fosse alcun bisogno di dirlo, ma visto il tenore del dibattito su tratta e sex work, lo ribadiamo: rifiutiamo la tratta, come qualsiasi altra forma di violenza e sfruttamento sulle donne, rifiutiamo tutte quelle condizioni che determinano il fenomeno della tratta, qualsiasi tipo di guadagno realizzato attraverso la tratta, qualsiasi tipo di espressione culturale che giustifichi la tratta e contestiamo chi non condanna la tratta; come transfemminist* queer ci battiamo per l’autodeterminazione dei soggetti e delle proprie scelte e condanniamo qualsiasi ostacolo a questo.

Per criticare e combattere la tratta occorre però necessariamente parlare delle strutture su cui il sistema della tratta si basa e degli strumenti con cui si attua: occorre parlare del ruolo che hanno, nell’alimentare questo fenomeno, le frontiere ed i meccanismi di controllo delle stesse, il permesso di soggiorno condizionato al contratto di lavoro o al ricongiungimento con mariti/familiari, l’impossibilità di migrare e spostarsi liberamente tra un paese e l’altro, i centri d’identificazione ed espulsione, le retate per le strade e le varie ordinanze anti-degrado che stabiliscono regole di condotta per allontanare, invisibilizzare, rinchiudere e deportare, per nascondere agli occhi dei “bravi cittadini” chi non è presentabile: vittime di tratta, migranti, rom, sex workers, persone trans, pover*.

Ci sembrano a dir poco ingenue le critiche alla tratta che non tengono conto di questi argomenti nella loro riflessione.
La tratta di donne migranti per alimentare il mercato del sesso in Europa poggia su tre pilastri fondamentali: il patriarcato, il capitalismo ed il sistema delle frontiere.
Nessuna lotta che tenga fuori la critica di questi tre sistemi di oppressione e la lettura dei nessi che ci sono tra lo sfruttamento lavorativo, l’oppressione e la violenza di genere e l’oppressione legata alla provenienza geografica, potrà mai sconfiggere questo fenomeno, ma solo renderlo più nascosto, invisibile e precario e alimentare i discorsi per la sicurezza, il decoro e la vittimizzazione delle donne.

Come ulteriore precisazione, occorre smettere di interpretare tutto il sex work come tratta. La tratta e’, purtroppo, una parte dell’industria del sesso, come lo e’ del lavoro domestico o dell’agricoltura. E’ l’ acuta espressione dello sfruttamento del lavoro di donne migranti, che ci finiscono per superare frontiere, povertà e guerra. Pensare a tutto il sex work come violenza di genere invisibilizza e banalizza le realtà di chi al suo interno subisce violenza, stupro e sfruttamento e vittimizza le migranti stesse, negando i loro progetti migratori e giustificando spesso e volentieri la loro espulsione. In più, continuare a discutere di questo tema confondendo i due termini in maniera strumentale e descrivendo un unico modello di prostituta (donna, cisgenere, migrante, sfruttata, vittima di tratta, incapace di liberarsi autonomamente) ed un unico contesto in cui si prostituisce, la strada, non fa altro che invisibilizzare e precarizzare la vita e le scelte di chi esercita il sex work, non solo donne cis, ma anche uomini, persone trans, non solo per la strada, ma anche negli appartamenti, nei club, online, sui set cinematografici, etc…

Una lotta per il riconoscimento del sex work e per i diritti di chi lavora nell’industria del sesso contribuisce a combattere lo stigma, l’isolamento e quindi le violenze che li/le colpiscono, mentre negarne la libertà di scelta, invisibilizzarne i vissuti e le esperienze, riconducendo tutta la prostituzione sotto l’etichetta di tratta e chiedendo la criminalizzazione di lavoratrici e clienti, lungi dallo sconfiggere il traffico di esseri umani, non fa altro che rendere tutte e tuttu più precari*, ricattabili e sfruttabili.

Inoltre, lo stigma della puttana non riguarda solo le prostitute ma è un’arma del patriarcato contro tutte le donne. Infatti, la stigmatizzazione della puttana permette di creare un modello ben definito di tutto quello che le donne non devono essere e soprattutto non devono fare. Questo permette di dividere schematicamente le donne in due categorie: la santa (moglie e madre) e la puttana. Per questo motivo, lo stigma della puttana agisce su tutte noi, quando ci vestiamo provocanti e ci sentiamo osservate, quando ci viene detto che ce la siamo cercata, quando le nostre abitudini sessuali diventano giustificazione per la violenza.

Non crediamo che la nostra autodeterminazione sia messa a rischio da i/le sex workers, piuttosto da uomini violenti, preti, obiettori, poliziotti, politici, usurai, banchieri, giornalisti, manager delle multinazionali, palazzinari, etc..

Non crediamo che il sex work sia un crimine contro l’umanità, piuttosto lo è il capitalismo, il sistema di sfruttamento neoliberista, basato su l’appropriazione delle risorse di tutt* da parte di pochi, sullo sfruttamento dei territori e delle persone, sulla chiusura delle frontiere.

Il nostro nemico è chi sancisce e legittima l’eterno disequilibrio tra ricch* e pover* nel mondo, non chi tenta di sopravvivere a questo, tutte, tutti e tuttu tentiamo di farlo, tutte, tutti e tuttu cerchiamo di sopravvivere con ogni mezzo all’esclusione sociale che inesorabilmente si scaglia contro chi decide di sottrarsi al regime di sfruttamento.

Non accettiamo che in un movimento femminista si giudichino le scelte altrui, che si parli dell’autodeterminazione delle altre e di quale strada dovrebbe seguire, che vengano negate le narrazioni che di sè altre soggettività danno, perchè sconvolgono la propria visione del mondo e costringono a rimettersi in discussione.

Ad una visione moralista e paternalista che ci fa vedere le altre come “più sfortunate” o “meno consapevoli” e quindi “da salvare” preferiamo la solidarietà, l’autorganizzazione e la costruzione di reti di relazioni e scambio, una pratica femminista intersezionale che riesca a leggere i nessi dei diversi sistemi di oppressione nelle vite di tutte, tutti e tuttu ed a trovare strumenti adatti a combatterli.

“Pertanto, se presa sul serio, una Cagna è una minaccia per le strutture sociali che tengono le donne schiave, e i valori sociali che giustificano il mantenimento delle donne ‘al proprio posto’. E’ la testimonianza vivente del fatto che l’oppressione della donna non deve esistere per forza, e come tale solleva dubbi sulla validità di tutto il sistema sociale.”

Ci troverete sempre dalla parte delle puttane!
Cagna che abbaia…morde pure!

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Oppressioni specifiche: spunti di riflessione sulla detenzione delle persone trans

Riceviamo e diffondiamo con piacere un’interessante analisi sulla reclusione delle persone trans:

Troppo spesso il discorso contro la detenzione amministrativa utilizza le categorie migrante ed immigrato.
Queste categorie, che usando un termine maschile alimentano l’immaginario dell’uomo africano in fuga dalla guerra e in cerca di un lavoro che gli permetta di mantenere la famiglia, da una parte appiattiscono l’analisi e dall’altra ci permettono di non problematizzare le differenze che caratterizzano le individualità anche fra i\le solidali. Quando parliamo di migranti ad esempio dimentichiamo che l’esperienza delle donne che migrano è completamente differente da quella degli uomini, per non parlare dei\delle trans e\o persone non eterosessuali. Quindi dimentichiamo che l’esperienza del viaggio, della permanenza nel territorio (in questo caso europeo), della richiesta d’asilo, della detenzione e delle espulsioni hanno delle caratteristiche peculiari e delle oppressioni che appunto sono specifiche e molteplici.
Se riconosciamo il privilegio di una persona bianca su una che non lo è, o quello di un uomo cisgenerei su chi non lo è, ci risulterà chiaro che in ogni esperienza della vita abbiamo privilegi diversi e subiamo o agiamo oppressioni specifiche.
La vita di tutte le persone che non sono uomo cisgenere è caratterizzata dall’oppressione del patriarcato.

L’orientamento sessuale non etero, così come il riconoscimento in un genere diverso da quello a cui sei stat* assegnat* alla nascita, sono oggetto di negazione. La norma prevede un codice binario: si è uomini o donne, si è attratt* dal sesso opposto; ciò che fuoriesce da questa è oggetto di fobia e odio,è sbagliato, innaturale, falso, e viene per questo invisibilizzato.

“…medici e giudici negano la realtà del mio corpo trans per poter continuare ad affermare la verità del regime sessuale binario. Esiste la nazione. Esiste il tribunale. Esistono gli archivi. Esistono le mappe. Esistono i documenti. Esiste la famiglia. Esiste la legge. Esistono i libri. Esiste il centro di detenzione. Esiste la psichiatria. Esiste il confine. Esiste la scienza. Esiste persino Dio. Ma il mio corpo trans non esiste.”
“Il mio corpo trans esiste” di P. Preciado

Nel linguaggio, giornalistico o di uso comune, le persone trans sono sempre definite come “il trans”, a prescindere dalla loro identificazione in quanto uomini o donne. In ambito giuridico la soggettività trans è riconosciuta solo attraverso una legge che definisce in maniera rigidissima i passaggi e le procedure da compiere per ottenere l’assistenza medica e il cambio di sesso nei documenti (diagnosi psichiatriche, sterilizzazione forzata ecc.); non è però riconosciuta per tutt* quell* che non sono disposti a sottoporsi a tutto ciò o per tutt* quell* che non possono farlo, rinforzando in questo modo il binarismo di genere e il controllo normalizzante dello stato sui corpi.
Il limbo normativo che si crea, soprattutto in situazioni di detenzione, dà a forze dell’ordine, giudici e consoli la possibilità di comportarsi completamente a propria discrezione.

La storia di Adriana è in questo senso esemplificativa: prelevata a seguito di un controllo di polizia mentre si trovava in un hotel a Napoli con il suo compagno, verificata la sua condizione di irregolarità, è stata reclusa in isolamento nel c.i.e. di Brindisi, dove è presente la sola sezione maschile. Lei ha scelto di lottare ed ha cominciato uno sciopero della fame e, anche a seguito della denuncia di un’associazione, le sono stati assegnati due piantoni. Mentre dalla direzione le veniva promesso un permesso di soggiorno provvisorio, quello che ha invece ricevuto è stato il trasferimento nelle medesime condizioni nel c.i.e. di Caltanissetta. La sua storia non è un caso isolato, la copertura mediatica che ha raggiunto non è legata alla sua eccezionalità.
La normalità per le persone trans recluse è vedere negata doppiamente la propria autodeterminazione attraverso l’impossibilità di accesso agli ormoni (qualora ne facciano uso), l’isolamento e la reclusione in sezioni diverse dal genere di appartenenza, quindi la continua minaccia di violenze da parte di reclusi e secondini.
Nella loro vita, e quindi anche all’interno dei centri di detenzione ed espulsione, le persone trans vivono l’oppressione specifica del cis-sessismoii, che va a sommarsi al razzismo e al suprematismo biancoiii nel caso di cui sopra.

Dopo tutto questo clamore mediatico, di Adriana e la sua quotidiana resistenza all’interno del c.i.e. non si parla più. E nessuno racconta che nell’ultimo mese altre donne trans sono state rimpatriate a seguito di rastrellamenti contro la prostituzione a Ravenna e Perugia, senza neanche il passaggio per il c.i.e., cosa che normalmente avviene. Le donne trans che lavorano nelle strade (come nel caso di Ravenna e Perugia), non sono solamente minacciate dalla misoginia, dalla transfobia e dallo stigma della “puttana” ma anche dalla violenza dello stato che ogni giorno le rinchiude,maltratta e deporta.
Tutto questo ancora una volta dimostra che se alla condizione di irregolarità si somma quella di transessualità il trattamento è ulteriormente discrezionale, privo di tutele e strutturalmente violento.
Media e associazioni nell’affrontare il caso di Adriana si sono concentrati quasi unicamente sull’assenza nei c.i.e. di una sezione specifica per trans. Neghiamo questa lettura dei fatti che mira a umanizzare delle istituzioni di oppressione che non sono riformabili. In passato esistevano centri che disponevano di sezioni speciali per persone trans (come in via Corelli a Milano) ma questo non le ha di certo tutelate o rese più libere, basti pensare agli stupri lì avvenuti da parte dei poliziotti.
La reclusione è un’esperienza violenta per chiunque la subisca e le oppressioni specifiche possono soltanto aggravarla; per questo lottiamo ogni giorno contro gabbie, frontiere, documenti e galere e in solidarietà con chi resiste.

Per la libertà di tutti e tutte.
Nemiche delle frontiere

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22 aprile: corso di pole dance sospeso!!

Car* il corso di pole dance questo sabato non ci sarà perché le Cagne Sciolte partecipano alla due giorni della mobilitazione Non Una Di Meno che si terrà il 22 e 23 aprile. Per maggiori informazioni su come partecipare alla due giorni:

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Daje de palo

UDITE UDITE! Sabato 1° aprile ricomincerà il corso di pole dance allo spazio delle Cagne Sciolte … e non è uno scherzo!! Turno unico per principianti dalle 15:30 alle 17. Vestitevi comod* e venite a divertirvi con noi!!!! <3

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Femminismo Puttana

Riceviamo e diffondiamo con piacere:

Traduzione del testo “Feminisme Pute” scritto dallo STRASS (Syndicat du TRAvail Sexuel).

Femminismo puttana

Questo testo è stato presentato alla Sorbona in occasione della Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne. Lo STRASS è stato invitato dal Block Offensif Antisexiste (BOA), collettivo di studenti femministe, a rispondere alla domanda:

Come riappropriarsi del proprio corpo in quanto donne o minorità di genere in una società
capitalista, sessista e patriarcale?

In un periodo di rimonta del femminismo istituzionale che giudica la nostra attività e condanna a rotazione sia la “sgualdrina”, sia la “vittima” sia il cliente “prostitutore”, la nostra lotta per il riconoscimento del lavoro sessuale, soprattutto in quanto donne cis e trans, deve essere guidata non solamente dalla nostra esperienza personale, ma anche da una riflessione storica sul legame tra la lotta femminista contro la dominazione patriarcale delle donne e il lavoro sessuale. L’analisi che segue permette di mettere in luce l’importanza delle lotte femministe intersezionali nella riappropriazione del nostro corpo e dei nostri diritti e di leggere il modo in cui il femminismo istituzionale dedito all’Uguaglianza Uomo-Donna – nel suo tentativo di esercitare un controllo sulle
minoranze e sui nostri diritti e sui nostri corpi e di dettare la sua “visione della dignità” – esercita sulle lavoratrici del sesso una dominazione identica a quella patriarcale.

Per definire quello che potrebbe essere un femminismo che parte dai nostri vissuti di sex worker, che potremmo anche chiamare “femminismo puttana”, affronteremo 3 elementi di riflessione:

-1) rendere visibili i servizi sessuali come lavoro che le donne sono costrette a svolgere nel
sistema patriarcale e nel sistema capitalista

-2) comprendere il ruolo dell’insulto “puttana”, della “puttanofobia” o dello “stigma della
puttana” come forme di controllo sessista sul corpo delle donne

-3) considerare il sex work come lavoro di genere: considerare come lavoro la performance della femminilità nella vita di tutti i giorni, sia sul lavoro e compreso sia nella sfera definita privata e “fuori dal lavoro”.

Il lavoro sessuale come lavoro

Le prime organizzazioni di lavoratrici del sesso sono nate negli anni ‘70, nell’ondata dei movimenti delle donne di quel periodo. In quel momento, delle militanti e teoriche femministe hanno analizzato la divisione sessuale del lavoro, soprattutto attraverso l’esempio del lavoro domestico relegato nella sfera privata, e reso invisibile da formulazioni quali “la mamma non lavora perché sta a casa a occuparsi dei bambini”.

In paesi come l’Italia, il Quebec o il Regno Unito, gruppi di donne hanno rivendicato il reddito per il lavoro domestico per denunciare questa ingiunzione al lavoro gratuito.
Nel 1975, nel momento in cui le prostitute francesi occupano le chiese per protestare
contro le leggi repressive che subivano, il collettivo inglese delle prostitute (l’English Collective of Prostitutes) stringeva alleanze con il movimento in favore del reddito per il lavoro domestico.

Tra queste femministe, Selma James e Silvia Federici hanno rivendicato il riconoscimento della prostituzione come lavoro, ritenendo che i servizi sessuali facciano anch’essi dei compiti che spettano “naturalmente” al ruolo definito femminile della sposa e della madre. Queste femministe sostenevano che il movimento delle prostitute, rendendo visibile la prostituzione come lavoro, aiutava l’insieme delle donne, che potevano così meglio negoziare, per il proprio piacere e interesse, le condizioni di questa imposizione alla sessualità, o per rifiutarla più facilmente. Questa ingiunzione a rendere dei servizi sessuali agli uomini è un tratto considerato come universale.

È in ogni caso la conclusione della ricerca dell’antropologa Paola Tabet che ha
teorizzato quello che ha chiamato il “continuum dello scambio economico-sessuale”. Per
riassumere, Tabet osserva che in tutte le società che ha studiato, le donne sono private della maggior parte delle ricchezze e dei mezzi di produzione detenuti in generale dagli uomini. Per vivere o sopravvivere, sono costrette a utilizzare il loro sesso e la loro sessualità come mezzo di scambio con gli uomini per accedere alle risorse o ai vantaggi come la sicurezza o una migliore posizione sociale. All’interno di questo continuum si situa la prostituzione, ma anche, in ugual misura, la maggior parte delle istituzioni del patriarcato che disciplinano e inquadrano le possibilità di incontri sessuali tra donne e uomini, ossia: il matrimonio, la coppia o gli appuntamenti amorosi.

Le prostitute non sono più quindi una categoria a parte dalla altre donne, ma sono esposte ad un’oppressione comune attraverso l’estorsione di servizi sessuali.
In cosa la nostra oppressione sarebbe specifica rispetto a quella delle altre donne? Ci arriveremo nel secondo punto.

La puttanofobia o lo stigma della puttana

La psicologa Gail Pheterson, altra grande femminista alleata dei movimenti delle prostitute dagli anni ‘70, ha analizzato i rapporti donne/uomini attraverso quello che ha denominato “prisma della prostituzione”. In seguito ai lavori di Tabet, Pheterson definisce la prostituzione come differente dalle altre forme di scambio economico-sessuale in quanto parte stigmatizzata e illegittima del continuum. La ragione di questa stigmatizzazione risiede nel fatto che, nella prostituzione, le donne osano esigere un compenso finanziario o materiale per i servizi sessuali resi e che, facendo ciò, si
rende visibile il fatto che si tratterebbe di un lavoro e non di un quadro di scambi “naturali”.
Pheterson mostra, tuttavia, che lo “stigma della puttana” non riguarda solo le prostitute ma è un’arma del patriarcato contro tutte le donne. Infatti, la stigmatizzazione della figura della prostituta, permette di creare una identità di genere separata all’interno della classe delle donne, che ha come funzione l’essere un contro-modello agli status legittimi, per esempio, della sposa o della madre. Le donne sono così divise schematicamente nel patriarcato tradizionale in due blocchi principali, a seconda del tipo di lavoro sessuale al quale sono assegnate: lavoro sessuale di riproduzione o lavoro sessuale che ha come finalità la produzione di piacere e divertimento (ovviamente maschile).

Questi due modelli di lavoro sessuale sono distinti perché gli uomini vogliono assicurarsi della trasmissione dei loro geni e del loro cognome, limitando quindi lo scambio sessuale delle donne a un solo uomo nella sfera privata o estendendola a tutti gli uomini
nella sfera pubblica.
L’insulto “puttana” non serve solo a stigmatizzare le lavoratrici del sesso ma anche tutte le
iniziative, i gesti di autodeterminazione, le le forme di ribellione, le forme di trasgressione di genere delle donne, in particolare il fatto di occupare gli spazi pubblici e notturni riservati tradizionalmente agli uomini, dove sono tollerate solo le “troie” disponibili per il loro divertimento.
Di fronte allo stigma della puttana, la strategia femminista “mainstream” è di incitare le donne a distinguersi il più possibile dalla categoria “puttana”, andando fino a cercare di abolirla. Tuttavia, finché la struttura economica del patriarcato e del capitalismo persisterà, ci saranno sempre delle donne che avranno bisogno, o troveranno interesse, a guadagnare soldi tramite il lavoro sessuale. Al posto di lottare contro la stigmatizzazione, l’approccio abolizionista ha piuttosto la tendenza a rinforzarla e a mantenere la dicotomia tra “donne normali” e “donne particolari”.
Una strategia per lottare contro la stigmatizzazione è stata quella di coniare il termine “lavoro sessuale” al posto di prostituzione. Questo termine ha come vantaggio, come si è visto, di denaturalizzare l’assegnazione ai servizi sessuali e di rendere visibile questo compito come lavoro.
Questa espressione permette anche di riconoscere la capacità di agire delle donne, e di organizzarsi per esigere dei diritti e protezioni conquistati dai movimenti operai. Infine, permette di riunire diverse categorie di lavoratrici del sesso in maniera più ampia di quanto faccia la prostituzione tradizionale, forme che sono solitamente isolate e divise secondo le loro modalità di lavoro.
Un’altra strategia di lotta contro lo stigma della puttana è quella di riappropriarcene
orgogliosamente. Quando diciamo che siamo delle puttane e che ne siamo fiere, non portiamo l’attenzione sulle condizioni di esercizio del lavoro sessuale o sui nostri sentimenti riguardo a questo. Qualunque siano le nostre esperienze, buono o cattive, sia che amiamo sia che detestiamo il nostro lavoro, non dobbiamo giustificarcene. Quello che noi diciamo tramite questo messaggio di fierezza, è che mai ci lasceremo ridurre dalla vergogna o dal silenzio, perché come vedremo adesso nel terzo e ultimo punto, lo stigma della puttana ha anche come scopo di impedirci di rivelare quello che sappiamo sui rapporti di genere attraverso la nostra esperienza di confronto quotidiano con gli
uomini.

Il lavoro sessuale come lavoro di genere

Una parte importante del lavoro sessuale consiste nel performare il genere, perché lo spazio della sessualità è uno di quegli spazi dove le possibilità di espressione di genere diventano più numerose, soprattutto nelle industrie del sesso contemporanee e mondializzate, risultato del liberalismo, dove le domande si diversificano  e dove le fonti d’accesso a certe forme di servizi sessuali come la pornografia si democratizzano.

Il lavoro sessuale evolve in effetti come il resto della società, in negativo ma qualche volta in positivo, in particolar modo grazie all’apporto delle femministe e delle correnti dette “pro-sex” che provano a cambiare i mestieri del sesso dall’interno. Benché le
espressioni di tipi di femminilità (o di mascolinità) siano le più diverse e maggiori libertà siano possibili soprattutto con lo sviluppo delle “nicchie commerciali” , certe rappresentazioni di genere possono essere anche molto più rigide e stereotipate. In ogni caso, è evidente a molte lavoratrici sessuali che la sessualità, la seduzione o le emozioni che mettono in campo appartengono a un lavoro di produzione di una femminilità.
Quando si è femministe puttane e si lavora con la sessualità, si osserva forse più rapidamente e facilmente la fatticità del genere e della femminilità che si performa nel quotidiano. Il trucco, il vestiario, gli accessori, tutta una serie di supporti materiali vengono a volte a sostenere un edificio totalmente costruito al servizio delle fantasie e delle rappresentazioni. Ma a forza di performare questa femminilità nel contesto del lavoro, diventa a volte meno sopportabile farlo al di fuori di esso, e per di più, gratuitamente. Perché dover essere ben vestite, sexy, dover sorridere, prestare
attenzione e pazienza alla conversazione degli uomini se non ci pagano per farlo?
Altra osservazione, questa mobilitazione della femminilità non è unicamente comune alle lavoratrici sessuali. In molte abbiamo svolto altri lavori nei quali dovevamo fare attenzione al nostro aspetto, al nostro abbigliamento, ai nostri comportamenti. Inoltre, anche nelle più alte sfere del potere si esige per esempio che le donne politiche siano ben vestite, o che subiscano ogni sorta di commento sul loro aspetto fisico o le emozioni che esprimono o non esprimono pubblicamente. E anche lì si ritrova una parte del lavoro specifico che le donne sono tenute a realizzare gratuitamente. In effetti, le donne non sono pagate meglio degli uomini quando devono passare dei minuti supplementari a “prepararsi” per “presentarsi” al lavoro, quando devono rispondere alle esigenze di un lavoro
emozionale che non è richiesto allo stesso modo agli uomini. In generale, le donne sono molto meno pagate.
Per ritornare al lavoro sessuale, quello che esso rivela è anche la produzione della mascolinità da parte dei clienti uomini. Come alcune femministe della “cura” hanno sottolineato, il lavoro sessuale è un lavoro di cura, che si situa nel quadro generale del lavoro della riproduzione sociale. Ciò significa che affinché gli uomini siano performanti al lavoro, nel lavoro della sfera pubblica considerato come produttivo e che è retribuito, essi possano contare sul lavoro gratuito e invisibile delle donne, o su quello delle professioniste della cura e dell’attenzione, che in generale sono altre donne. In questa maniera, la mascolinità forte e performante nella sfera pubblica, si rivela invece fragile, da consolare e da confortare attraverso il lavoro di attenzione e di cura, tra cui il lavoro sessuale.
I testi della scrittrice e prostituta Grisélidis Réal rivelano in gran parte questa “fragilità maschile” attraverso la sessualità. Un uomo che deve mantenere un ruolo sociale, tanto più se si tratta di una posizione di potere, non può permettersi che siano esposti eventuali comportamenti sessuali in contraddizione con quello che rappresenta. Essere penetrati sessualmente, farsi pisciare addosso, essere sottomessi, non essere considerati come performanti sessualmente, non riuscire a farselo diventare duro a comando, avere una sessualità che non permette di fare dei figli e quindi di essere produttivi e riconosciuti come padri. Tutte queste cose possono essere fatte con una lavoratrice
sessuale che garantisce di non giudicare. Inoltre, come abbiamo visto, la stigmatizzazione della puttana permette di impedire qualsiasi espressione da parte sua, o di invalidare la sua parola nel caso in cui quest’ultima non resti in silenzio.

Per concludere, e per dare delle prospettive più concrete su quello che noi viviamo attualmente, la penalizzazione dei clienti (n Francia il 13 aprile 2016 è entrata in vigore la legge che penalizza i clienti) non permette di rovesciare i rapporti di genere. Ci riporta invece all’ingiunzione ad una sessualità detta gratuita e naturale, senza renderci conto o negando la parte di lavoro che pesa ancora sul corpo delle donne. La stigmatizzazione non diminuisce – tutto il contrario! – perché siamo spinte alla vergogna e al pentimento attraverso un “percorso di uscita dalla prostituzione” che è l’unica possibilità per la nostra condizione. Nessuno strumento reale è messo in campo per permettere di migliorare le nostre condizioni economiche e per rifiutare lo sfruttamento del lavoro. Ci fanno capire solo che è preferibile farsi sfruttare altrove che nel lavoro sessuale. La penalizzazione ha ironicamente ridotto ancora di più il nostro potere, addirittura ha invertito il rapporto di forza in favore dei clienti, perché ci ha precarizzate esponendoci all’obbligo di accettare degli uomini o delle condizioni che prima potevamo rifiutare.

Per riappropriarci del potere sui nostri corpi, per lottare contro le violenze e lo sfruttamento, noi continuiamo a credere che un approccio sindacale sia più efficace degli interventi “polizieschi” e detentivi dello stato. Noi continuiamo a credere in un femminismo basato sull’autodeterminazione delle donne, che non vanifichi la loro parola né le infantilizzi. Noi crediamo anche che rendere visibile il lavoro delle donne è il miglior strumento per permettere e organizzare infine lo sciopero delle donne.

Link al testo originale: http://strass-syndicat.org/feminisme-pute/

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Transfobia di stato: ogni frontiera è violenza sulle donne

Grazie alla denuncia del Mit (Movimento Identità Transessuale) siamo venute a conoscenza della storia di Adriana, una donna trans che da 17 anni vive in Italia. Da 3 anni, dopo aver perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno, si è ritrovata  a vivere nell’illegalità, condizione comune a moltissime delle persone migranti che vivono nella penisola. In un sistema legislativo come quello italiano il rilascio del permesso di soggiorno è legato o ad un regolare contratto di lavoro oppure a strumenti che, come il ricongiungimento familiare, restano appannaggio delle sole famiglie eterosessuali e stabiliscono allo stesso tempo l’indissolubilità del legame matrimoniale, che, soprattutto per le donne migranti, diventa condizione unica per rimanere in questo paese.
A seguito di un controllo di polizia in un hotel a Napoli, in cui Adriana si trovava con il suo compagno, e verificata la sua posizione di irregolare, è stata prelevata e portata nel CPR (centro di permanenza per il rimpatrio) di Brindisi, istituto detentivo riservato agli uomini migranti.                                     
Non siamo a conoscenza dei motivi per i quali le forze dell’ordine si siano presentate nell’albergo: sono state chiamate da qualcuno? Era un controllo di routine? Vista l’assiduità delle retate nei confronti delle sex workers e il pregiudizio per il quale spesso le donne trans vengono automaticamente considerate lavoratrici del sesso, non ci sentiamo di escludere che i controlli siano avvenuti per questo motivo; infatti, nonostante in Italia la prostituzione non costituisca reato, le politiche a difesa del decoro urbano e contro favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, ogni giorno determinano numerosi e violenti rastrellamenti di sex workers, tra le quali numerose donne trans, per le quali il lavoro sessuale è una delle poche opzioni per guadagnarsi da vivere data la transfobia vigente sul mercato del lavoro ufficiale. 
Adriana è reclusa nel CPR di Brindisi da circa un mese; grazie alle sue precedenti relazioni con l’associazione MIT, il 18 di Marzo siamo venut* a conoscenza della sua storia e dello sciopero della fame che stava portando avanti da ormai 8 giorni. Secondo le informazioni diffuse, tra i motivi dello sciopero c’è la negazione della sua identità di genere, motivo per il quale è stata reclusa in un centro di detenzione maschile, con tutto ciò che ne consegue, ossia una costante situazione di violenza psicologica e pericolo per la sua incolumità.         
Le narrazioni dei media di questi giorni ci raccontano solo un aspetto della violenza che Adriana sta vivendo, ossia la pericolosità di essere rinchiusa tra uomini. Noi chiamiamo violenza anche che le sia negato il trattamento ormonale sostitutivo di cui ha bisogno, il cis-sessismo e la transfobia delle istituzioni, che di fatto non riconoscono l’identità delle persone trans, e il razzismo dello stato che criminalizza, rastrella e ingabbia le persone migranti. Vogliamo denunciare il fatto  che la detenzione e il rischio di deportazione a cui Adriana è  sottoposta sono il frutto delle transmisoginia, del cis-sessismo e del  razzismo strutturali che permeano le istituzioni.
Proprio a questo stiamo assistendo con crescente assiduità negli ultimi tempi, anche a causa della circolare del capo della polizia che indicava a numerose prefetture sparse per l’Italia di intensificare i controlli finalizzati al rintraccio di migranti irregolari provenienti dalla Nigeria (https://hurriya.noblogs.org/post/2017/02/01/italy-attention-new-raids-and-deportations-of-nigerian-nationals/); nonché a causa della recente approvazione dei due decreti legge Minniti che, da un lato, fanno della lotta all’immigrazione irregolare un baluardo delle politiche migratorie italiane (D.L. Minniti sull’immigrazione) e dall’altro includono la prostituzione tra i comportamenti da stigmatizzare in quanto lesivi del decoro urbano (D.L. sicurezza urbana).
Quanto accade ad Adriana non è un caso isolato ma la normalità nelle esperienze di detenzione delle persone trans. 
Nei CPR così come nelle carceri, le persone trans sono soggette  a oppressioni specifiche che vanno dall’essere detenute in sé, all’essere migranti (specie nel caso della detenzione nei CPR) e alla negazione dell’identità, motivo per cui queste persone sono detenute nelle sezioni in base al genere assegnato alla nascita e non a quello vissuto/scelto. La prassi è essere recluse in sezioni specifiche o spesso nelle infermerie o in isolamento, dovendo quindi affrontare la pena aggiuntiva della negazione della socialità con le altre persone detenute. La stessa esclusione vissuta nella società viene dunque riprodotta all’interno delle carceri.
La sola differenza tra Adriana e le altre persone trans recluse è che lei ha trovato un canale di comunicazione con l’esterno con cui diffondere la sua lotta e la sua storia.                                                                             
Siamo consapevoli dell’importanza di avere contatti con chi è detenut* perché emerga la sua voce e la narrazione delle resistenze quotidiane che porta avanti, per evitare le vittimizzazioni e le strumentalizzazioni politiche di chi adesso usa queste persone per ergersi a paladino delle soggettività LGBTQI+. A dispetto della lotta che Adriana ha portato avanti per far uscire la sua voce fuori da quelle sbarre,  la sua storia ci sembra essere stata trasformata invece nel caso mediatico attraverso cui, gli stessi politici che hanno contribuito a istituire a suo tempo i centri di detenzione per migranti e che partecipano alla creazione dell’apparato repressivo dello stato, oggi si indignano per la negazione dei diritti delle persone trans nei CPR.                                                       
Proprio queste vittimizzazioni e strumentalizzazioni sono alla base dell’intero sistema d’accoglienza e detenzione delle persone migranti: un sistema che si riproduce e nutre con la differenziazione tra migrante buono da proteggere (il rifugiato che scappa dalla guerra, chi è vittima di tratta) e il migrante cattivo da criminalizzare (i cosiddetti “migranti economici” che, secondo la logica dello stato, sarebbero inclini al compimento di reati, chi non ha documenti in regola, chi per scelta o necessità vive di extralegalità). Un sistema che a fronte di una minima percentuale di persone “accolte”, ne reclude e deporta centinaia ogni mese.
La prima soluzione con cui lo Stato ha pensato di risolvere la faccenda di Adriana è stata metterla in isolamento, costantemente piantonata dalle forze dell’ordine, il chè non ci ha fatto smettere di temere per la sua incolumità perché non riconosciamo loro un ruolo di protezione né vogliamo dimenticare i numerosi casi in tutto il mondo di persone trans aggredite dalla polizia nelle strade e nelle carceri. Successivamente è stato concesso ad Adriana un permesso di soggiorno di 6 mesi per protezione internazionale ma finito questo periodo cosa accadrà? Ci si scalda il cuore alla notizia della sua liberazione ma alla stampa che parla di “reclusione disumana” soltanto per quanto riguarda la detenzione di Adriana rispondiamo che, nonostante lei subisse il peso ulteriore di un’oppressione specifica, quel luogo è disumano per ognuna delle persone che vi vengono rinchiuse.                                                             

Ciò a cui aspiriamo è che tutte le persone recluse nelle carceri o nei CPR vengano liberate. 

Urliamo forte la nostra solidarietà ad Adriana e a chi ogni giorno lotta e resiste in ogni gabbia.

Contro ogni frontiera tra generi e territori

ps: Apprendiamo da fonti giornalistiche (http://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/872764/la-trans-adriana-dal-cie-di-brindisi-portata-in-sicilia.html) che Adriana è stata di nuovo rinchiusa in un CIE (oggi CPR) questa volta quello di Caltanissetta. Le autorità, infatti, hanno disposto la reclusione a causa dei suoi precedenti penali: l’attuale disciplina legislativa in materia di immigrazione prevede infatti che i richiedenti asilo con precedenti attendano il responso delle Commissioni Territoriali nei CPR. Ancora una volta Adriana è stata rinchiusa in un CIE in cui c’è solo la sezione maschile: sempre per “tutelarne l’incolumità” è stata isolata dagli altri prigionieri e alloggiata in un container. La violenza dello stato sui corpi delle donne è come sempre spietata e la transfobia è chiaramente una colonna portante della violenza di genere e del genere. Contro ogni gabbia e confine tra i territori e i generi.

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2 Aprile FattelaDaTe, giornata delle autoproduzioni @Cagne Sciolte

 

 
Riprende l’appuntamento delle autoproduzioni alle Cagne Sciolte!

Ore 16
*Laboratorio di Serigrafia – noi mettiamo i telai tu porta magliette/mutande/felpe e insieme le serigrafiamo

*Laboratorio di sapone fatto in casa – sapone per l’igiene personale, da bucato e pulizia della casa

Ore 19
Spettacolo teatrale ‘Maria Assunta Locarmine’

Maria Assunta Locarmine ha 38 anni, è di Fontanarosa in Provincia di Avellino, ha due figli, fa la casalinga e vorrebbe tanto partecipare al programma di RAI UNO “Affari Tuoi”. Ha qualche sogno da realizzare ma deve stare allerta perché nei campi Irpini si aggira uno strano lupo a sei zampe affamato di petrolio.
“Affari tuoi”… sì, ma rivolti alla terra, all’acqua, all’aria e alla cura di questi elementi che hanno l’ampio respiro dell’orbita terrestre, del movimento del cosmo e, quindi, di noi stessi.
Maria Assunta Locarmine è una narrazione teatrale che parla di ecologia, di impegno personale e di cambiamenti (parla anche di Cappuccetto Rosso ma con un finale un po’ diverso).
E’ stata pensata per parlare alle piazze, ai bambini, ai distratti, a chi si annoia con i discorsi seri, a chi non ha tempo per la “politica” e per questo contempla il rischio di divertirsi!
Affinchè l’inutile arte del teatro possa avere l’inconveniente di un ascolto leggero e profondo, di passare contenuti che hanno a che fare con la vita e le scelte di ognuno di noi.
Questo progetto teatrale nasce dall’esigenza di parlare «a» e «con» la gente d’Irpinia del progetto di esplorazione per la ricerca di idrocarburi «NUSCO» (approvato nel 2013 all’interno del SEN – Strategia Energetica Nazionale) ma ci siamo rese conto che riguarda molta parte del territorio italiano, che è importante parlarne a quante più persone possibile, singoli e piccole comunità. I territori minacciati della devastazione ambientale sono molti e questo modello di «sviluppo» di cui sono la conseguenza ci riguarda tutti e tutte. Crediamo che nessuno di noi può dirsi esente dal prendere coscienza di ciò che questo significa.
Vogliamo che il nostro spettacolo, oltre che a divertirsi, serva anche a questo.
Solo ciò che passa per le emozioni alberga durevolmente nel pensiero.

Alle 21
Cena vegan

A seguire dj set con
MISS TITILLO – elettroqueerpleasureontherocks

Posted in eventi, General | Tagged , , , , | Comments Off on 2 Aprile FattelaDaTe, giornata delle autoproduzioni @Cagne Sciolte