Altro materiale in vista dell’iniziativa di venerdì 16 giugno 2023! Le donne in Egitto

Le donne in Egitto:

Siamo noi a pagare il prezzo più alto e a raccogliere violazioni

Le donne in Egitto e la morale feroce

Diremo che la protagonista di questa storia si chiama Fatma. Non voglio usare il suo nome reale per paura che subisca delle ripercussioni.

Ogni mese ha 4 o 5 colloqui in carcere: uno con suo padre, detenuto nel carcere di Burg al-Arab che dista almeno 200 km dalla capitale il Cairo; 2 colloqui con i suoi due fratelli. Uno detenuto nella prigione di Wadi al-Natrun che dista 100 km a Nord della capitale; l’altro fratello si trova nel carcere di Badr, 70 km a est dalla capitale.

Una ragazza egiziana appena trentenne vive così. Il suo compito è prendersi cura di 3 persone detenute della stessa famiglia.

Dopo la morte della madre è rimasta sola ad affrontare un compito logorante. Provvede al mantenimento dei suoi cari in carcere, dal momento che quello che danno dentro non è sufficiente e i detenuti possono avere fame se fanno affidamento al solo al vitto delle prigioni egiziane.
Nonostante tutto le persone detenute si sostengono a turno.

Fatma fa i 5 colloqui mensili senza che ci sia una rete di trasporto pubblico che le permetta di arrivare. Sono gli stessi mezzi di trasporto popolari che usano migliaia di persone, mentre il regime spende miliardi di dollari per un progetto di treni elettrici che arrivano nella nuova desolata capitale. Un esempio di dispotismo avaro.

Come fa Fatma per vivere tranquilla in Egitto, sotto la morsa di una dittatura che compie i suoi crimini nel mezzo di un’atmosfera carnevalesca e celebrazioni sontuose che vogliono esaltare lo sviluppo del paese e la felicità di chi la governa con ciò che ha realizzato durante i suoi due mandati al potere.

Vogliono convincere Fatma, e come lei tante altre persone, che questa è la giustizia e la speranza più grande a cui può aspirare è riunire la sua famiglia in un unico carcere.
Possiamo immaginare che Fatma ci abbia provato veramente e che abbia effettivamente richiesto alle autorità che i frammenti della sua famiglia venissero riuniti in un unico carcere evitandole il viaggio settimanale in tre province diverse. Ovviamente la richiesta è stata negata.
Così Fatma è invecchiata nei suoi venti anni a causa del terrore a cui è sottoposta, mentre sarebbe bastato unire i suoi cari in un unico carcere.

Negli ultimi anni le statistiche ufficiali in Egitto segnalano l’aumento delle donne a capo delle famiglie. Tra le cause ci sono i divorzi e le morti dei mariti. Tuttavia, non vengono prese in considerazione le porte delle carceri che si aprono per chiunque, per motivi penali e politici, nonché la mancanza di giustizia nell’applicare le leggi.
I numeri non prendono in considerazione le migliaia di uomini che sono finiti in carcere dopo la costruzione di più di 35 nuove prigioni dal 2013. Sono figlie e donne come Fatma che si prendono cura di loro.

Da dieci anni Fatma vive in questa condizione in cui la lentezza della dittatura porta le persone a normalizzare il male, visto che il regime minaccia sempre il peggio.
Purtroppo la storia di Fatma non è l’unica in Egitto, è invece l’incubo che vivono centinaia di donne dall’arrivo del nuovo regno di al-Sisi. Le donne pagano sicuramente un prezzo più alto sotto la morsa del despotismo e se la Sharia (la legge islamica) prevede che a un uomo vada l’eredità e i beni materiali equivalenti a due donne, la realtà ora dice che una donna sopporta tutto il peso del sostegno, del supporto e della fatica di due o più uomini.
Lavora, si prende cura della casa, dei figli e degli uomini in carcere. Questo è un compito arduo visto il tracollo economico che colpisce sia le classi povere che quelle medie.

Ci sono delle donne che vanno ai colloqui senza pacchi alimentari.

La madre di un prigioniero in un procedimento penale, dentro una delle sale di attesa del carcere un giorno ha detto: “Voglio vedere mio figlio, ma non ho soldi per comprargli niente”.
Le persone vicino a lei, anche loro in condizioni tristemente precarie, hanno fatto una colletta di qualche spiccio. Solo così la donna è riuscita a comprare l’essenziale: qualche formaggio, il pane e un dolce tipico con la tahina. Tutto questo ha solo un nome: dispotismo umiliante.

Noi paghiamo un prezzo più alto.

Una donna lo ha detto quando ha pubblicato un video in cui parlava dell’aumento del prezzo dell’olio, triplicato in soli sei mesi.
Raccontava della rabbia delle donne casalinghe in Egitto, diventate prede, poiché essendo l’ultima ruota del carro continuano a sopportare le terrificanti conseguenze della crisi economica.
Una di loro ha chiesto al presidente di fornire almeno una bottiglia d’olio in più, dicendo: “Gli uomini escono, mentre sono io a rimanere a casa con i miei figli e figlie affamate, devono mangiare. Noi paghiamo un prezzo più alto”.

Possiamo capire il rapporto dell’attuale regime con le donne egiziane fin dall’inizio. Nel marzo del 2011, il capo dell’intelligence militare egiziana ha ammesso che durante la rivoluzione le sue forze hanno fatto il test di verginità alle manifestanti, al fine di garantire la castità delle donne che uscivano per difendere i loro diritti! Ero tra quelle donne arrestate in quel giorno in piazza Tahrir. Tuttavia, il mio tesserino da giornalista e forse la mia voce alta e forte, mi hanno salvata da quello che è successo alle altre donne. È stata una violazione esplicita con la scusa di proteggere la morale. Da quel momento si è radicato un metodo: la morale feroce.

Abbiamo ragazze povere sotto i vent’anni, vittime della morale feroce, che passano anni in prigione solo per aver registrato alcuni video che imitano quelli di artisti e star della società egiziana. Passano anni dopo essere state accusate di diffondere dissolutezza, di distruggere i valori della famiglia egiziana e della tratta di esseri umani. La stampa ha riportato l’ingiusta sentenza pubblica sulle ragazze quando il giudice nel suo discorso farcito di versetti coranici, ha annunciato la sentenza a dieci anni di carcere per Mawaddah Al-Adham una ragazza di Tik Tok per aver violato la morale pubblica. Sentenza poi ridotta a sei anni. Dopo due anni dalla sua carcerazione, la Procura di Cassazione, un organo giudiziario egiziano di alto livello, ha dichiarato nel suo rapporto che le accuse sono prive di prove in merito a questi crimini, raccomandando alla Corte di Cassazione di accettare il ricorso presentato alla detenzione della ragazza. Il tribunale ha, tuttavia, respinto il ricorso e ha confermato la pena detentiva. Così Mawada rimarrà in prigione per altri 4 anni senza alcuna possibilità di uscire se non con la grazia del Presidente della Repubblica!

I tribunali egiziani sono forse diventati luoghi per processare le donne che parlano e provano a denunciare pubblicamente le violazioni che subiscono?

È proprio quello che è successo per due volte consecutivamente.
Sono stata condannata a pagare una cauzione per aver supportato le sopravvissute a violenze sessuali e stupri che hanno reso pubbliche le loro testimonianze. Lo stesso è avvenuto con la regista Salma el-Tarzi che è stata condannata a pagare una cauzione sette volte più alta della mia semplicemente perché ha confermato la veridicità delle testimonianze.
Potevamo finire in carcere o pagare una sanzione perché abbiamo osato parlare di Islam al-Azzazi contro cui sono state pubblicate sei testimonianze di violenze sessuali e stupri ma le leggi egiziane non hanno considerato il crimine di stupro perché mancavano prove sufficienti.
Ci hanno invece condannate con l’accusa di diffamazione, sicuramente molto più pericolosa di uno stupro.

Questa è una velocissima panoramica della vita delle donne nel paese in cui vivo.

Un paese che usa le donne come fossero un oggetto decorativo per promuovere un’immagine di una finta emancipazione.

Questo testo che ho scritto continua a farmi stringere il cuore, nonostante rappresenti solo alcune briciole della agghiacciante realtà che le donne vivono in Egitto.

Rasha Azab

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