Sex work is work!

“Dobbiamo essere forti, dobbiamo essere militanti, dobbiamo essere pericolose. Dobbiamo renderci conto che ‘Cagna è bella’ e che non abbiamo nulla da perdere. Niente di niente.”

Con questa frase, tratta dal manifesto CAGNA del 1968, abbiamo aperto uno dei primi comunicati scritti come Cagne Sciolte, dopo aver liberato uno spazio in Via Ostiense a Roma, nel 2013.

Abbiamo iniziato la nostra riflessione a partire dalla riappropriazione di un termine dispregiativo, cagna, insulto sessista rivolto almeno una volta a tutte noi, per risignificarlo, per farne un elemento di forza e di rifiuto di qualsiasi norma imposta dal sessismo e dal patriarcato su di noi, sulle nostre vite, sui nostri corpi e desideri. Non vogliamo essere belle, carine, sistemate, pettinate ed educate per forza, non vogliamo essere alla ricerca del principe azzurro o dell’amore eterno, non vogliamo limitare nè il numero di persone che ci portiamo a letto nè quello che decidiamo di farci sotto le lenzuola…o sul tavolo o nel bagno di un bar.

E allora si, siamo cagne, perchè ben diverso è sentirselo urlare dal maschione di turno o urlarlo con le tue sorelle intorno, facendone un grido di lotta, uno strumento di ribellione e di riconoscimento con le altre. Il processo che ci porta a definirci cagne non è così diverso da quello che ha portato i gay a riappropriarsi del termine frocio, i soggetti razzializzati del termine negro e le sex workers del termine puttana.

Per questa ragione ci teniamo oggi a prendere parola ed esprimere solidarietà a tutt* coloro che lavorano nell’industria del sesso ed alle lotte per i loro diritti.
Crediamo nell’autodeterminazione di tutte, tutti e tuttu e anche se sappiamo che la liberazione di ognun* e di tutt* non può passare per il lavoro -nessun tipo di lavoro- non crediamo che fare la sex worker renda più schiave che fare la badante, la cameriera, la babysitter, l’operaia o la brava moglie di casa che rinuncia a se stessa per il bene di figli, mariti, padri, cani e gatti. Crediamo nella libertà di ognun* di scegliere come gestire il proprio corpo e la propria sessualità e riconosciamo come strumento fondamentale della nostra lotta uno dei grandi insegnamenti del femminismo: partire da sé, che per essere più precis* significa partire dalla PROPRIA definizione di sè, riconoscendo come oppressione ed invisibilizzazione qualsiasi definizione che venga imposta da altr*. Sono io ed io soltanto che scelgo se e quando definirmi come vittima o sopravvissuta, santa o puttana, bisognosa d’aiuto o pronta a reagire.

Pensavamo non ci fosse alcun bisogno di dirlo, ma visto il tenore del dibattito su tratta e sex work, lo ribadiamo: rifiutiamo la tratta, come qualsiasi altra forma di violenza e sfruttamento sulle donne, rifiutiamo tutte quelle condizioni che determinano il fenomeno della tratta, qualsiasi tipo di guadagno realizzato attraverso la tratta, qualsiasi tipo di espressione culturale che giustifichi la tratta e contestiamo chi non condanna la tratta; come transfemminist* queer ci battiamo per l’autodeterminazione dei soggetti e delle proprie scelte e condanniamo qualsiasi ostacolo a questo.

Per criticare e combattere la tratta occorre però necessariamente parlare delle strutture su cui il sistema della tratta si basa e degli strumenti con cui si attua: occorre parlare del ruolo che hanno, nell’alimentare questo fenomeno, le frontiere ed i meccanismi di controllo delle stesse, il permesso di soggiorno condizionato al contratto di lavoro o al ricongiungimento con mariti/familiari, l’impossibilità di migrare e spostarsi liberamente tra un paese e l’altro, i centri d’identificazione ed espulsione, le retate per le strade e le varie ordinanze anti-degrado che stabiliscono regole di condotta per allontanare, invisibilizzare, rinchiudere e deportare, per nascondere agli occhi dei “bravi cittadini” chi non è presentabile: vittime di tratta, migranti, rom, sex workers, persone trans, pover*.

Ci sembrano a dir poco ingenue le critiche alla tratta che non tengono conto di questi argomenti nella loro riflessione.
La tratta di donne migranti per alimentare il mercato del sesso in Europa poggia su tre pilastri fondamentali: il patriarcato, il capitalismo ed il sistema delle frontiere.
Nessuna lotta che tenga fuori la critica di questi tre sistemi di oppressione e la lettura dei nessi che ci sono tra lo sfruttamento lavorativo, l’oppressione e la violenza di genere e l’oppressione legata alla provenienza geografica, potrà mai sconfiggere questo fenomeno, ma solo renderlo più nascosto, invisibile e precario e alimentare i discorsi per la sicurezza, il decoro e la vittimizzazione delle donne.

Come ulteriore precisazione, occorre smettere di interpretare tutto il sex work come tratta. La tratta e’, purtroppo, una parte dell’industria del sesso, come lo e’ del lavoro domestico o dell’agricoltura. E’ l’ acuta espressione dello sfruttamento del lavoro di donne migranti, che ci finiscono per superare frontiere, povertà e guerra. Pensare a tutto il sex work come violenza di genere invisibilizza e banalizza le realtà di chi al suo interno subisce violenza, stupro e sfruttamento e vittimizza le migranti stesse, negando i loro progetti migratori e giustificando spesso e volentieri la loro espulsione. In più, continuare a discutere di questo tema confondendo i due termini in maniera strumentale e descrivendo un unico modello di prostituta (donna, cisgenere, migrante, sfruttata, vittima di tratta, incapace di liberarsi autonomamente) ed un unico contesto in cui si prostituisce, la strada, non fa altro che invisibilizzare e precarizzare la vita e le scelte di chi esercita il sex work, non solo donne cis, ma anche uomini, persone trans, non solo per la strada, ma anche negli appartamenti, nei club, online, sui set cinematografici, etc…

Una lotta per il riconoscimento del sex work e per i diritti di chi lavora nell’industria del sesso contribuisce a combattere lo stigma, l’isolamento e quindi le violenze che li/le colpiscono, mentre negarne la libertà di scelta, invisibilizzarne i vissuti e le esperienze, riconducendo tutta la prostituzione sotto l’etichetta di tratta e chiedendo la criminalizzazione di lavoratrici e clienti, lungi dallo sconfiggere il traffico di esseri umani, non fa altro che rendere tutte e tuttu più precari*, ricattabili e sfruttabili.

Inoltre, lo stigma della puttana non riguarda solo le prostitute ma è un’arma del patriarcato contro tutte le donne. Infatti, la stigmatizzazione della puttana permette di creare un modello ben definito di tutto quello che le donne non devono essere e soprattutto non devono fare. Questo permette di dividere schematicamente le donne in due categorie: la santa (moglie e madre) e la puttana. Per questo motivo, lo stigma della puttana agisce su tutte noi, quando ci vestiamo provocanti e ci sentiamo osservate, quando ci viene detto che ce la siamo cercata, quando le nostre abitudini sessuali diventano giustificazione per la violenza.

Non crediamo che la nostra autodeterminazione sia messa a rischio da i/le sex workers, piuttosto da uomini violenti, preti, obiettori, poliziotti, politici, usurai, banchieri, giornalisti, manager delle multinazionali, palazzinari, etc..

Non crediamo che il sex work sia un crimine contro l’umanità, piuttosto lo è il capitalismo, il sistema di sfruttamento neoliberista, basato su l’appropriazione delle risorse di tutt* da parte di pochi, sullo sfruttamento dei territori e delle persone, sulla chiusura delle frontiere.

Il nostro nemico è chi sancisce e legittima l’eterno disequilibrio tra ricch* e pover* nel mondo, non chi tenta di sopravvivere a questo, tutte, tutti e tuttu tentiamo di farlo, tutte, tutti e tuttu cerchiamo di sopravvivere con ogni mezzo all’esclusione sociale che inesorabilmente si scaglia contro chi decide di sottrarsi al regime di sfruttamento.

Non accettiamo che in un movimento femminista si giudichino le scelte altrui, che si parli dell’autodeterminazione delle altre e di quale strada dovrebbe seguire, che vengano negate le narrazioni che di sè altre soggettività danno, perchè sconvolgono la propria visione del mondo e costringono a rimettersi in discussione.

Ad una visione moralista e paternalista che ci fa vedere le altre come “più sfortunate” o “meno consapevoli” e quindi “da salvare” preferiamo la solidarietà, l’autorganizzazione e la costruzione di reti di relazioni e scambio, una pratica femminista intersezionale che riesca a leggere i nessi dei diversi sistemi di oppressione nelle vite di tutte, tutti e tuttu ed a trovare strumenti adatti a combatterli.

“Pertanto, se presa sul serio, una Cagna è una minaccia per le strutture sociali che tengono le donne schiave, e i valori sociali che giustificano il mantenimento delle donne ‘al proprio posto’. E’ la testimonianza vivente del fatto che l’oppressione della donna non deve esistere per forza, e come tale solleva dubbi sulla validità di tutto il sistema sociale.”

Ci troverete sempre dalla parte delle puttane!
Cagna che abbaia…morde pure!

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