15 giugno: KARAOKE e Cena a sostegno del Quilombo38 presso la Trattoria Vegan Popolare “La Puttanesca”

Cena a sostegno del Quilombo38 presso la Trattoria Vegan Popolare “La
Puttanesca”

Il Quilombo38 è al quarto ponte del quartiere Laurentino 38
E’ uno spazio nato l’8 marzo 2014 per diventare, nel quotidiano, un
punto d’incontro nel quartiere.
Biblioteca, laboratori e momenti di scambio sono già attivi, tanti i
desideri e i progetti da realizzare.

Ore 19: Presentazione del progetto a cura dei/delle Quilomber@s

Ore 20,30: Cena per sostenere i lavori e i laboratori

Ore 22: KARAOKE

quilombo38.altervista.org
facebook.com/Quilombo38

Quilombo15cagne

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Da Mattia, prigioniero #noTav: La prigione degli sguardi – note sui processi in videoconferenza

Note sul processo in videoconferenza

La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta, malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che “l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837 della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri “passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”, una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi, invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.

La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione. Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice; divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo “disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo. Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera. Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.

Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara, Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’”ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.

“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.

Mattia Zanotti
dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria,
fine aprile 2014

panopticon

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6 giugno: Spettacolo Teatrale “Madama C.I.E.”

6 giugno ore 21 Attrice Contro e Cagne Sciolte presentano “Madama C.I.E”

Rievocazioni estemporanee di una divisa scoppiata

Scritto, diretto, e interpretato da Alessandra Magrini

madamacie4Alessandra Magrini riporta in scena “Madama C.I.E.”, uno spettacolo di sconcertante attualità: sullo sfondo Lampedusa, il Mediterraneo che assomiglia sempre di più a una fossa comune, le proteste dei migranti, le rivolte nei Cie e nei Cara.

Madama CIE vive ed opera nell’Italia dei nostri giorni, quella degli sgomberi dei senza casa, delle aggressioni razziste, delle ronde, dei viaggi disperati dei migranti senza documenti, fatti prigionieri dallo Stato. A calcare le scene è un personaggio costruito dalla fantasia dell’autrice, ma i contenuti della narrazione sono frutto di una documentazione effettuata su fatti di cronaca e contatti diretti con persone migranti senza documenti.

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Italiano e non solo

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domenica 8 giugno: le donne nell’autonomia zapatista

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Una domenica fatta di giochi e disegni per tuttx, fiabe resistenti, narrazioni collettive con lx compagnx di nodo solidale e una cena in compagnia!

qualche link interessante tradotto dallo spagnolo: qui la sesta dichiarazione della selva di lacadona, qui il testo sulle donne e autonomia  dell’escuelita zapatista 

 

qui il documentario in spagnolo cronica de una rebelión

 

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#IoDecido: azione contro gli obiettori al Policlinico di Roma: a 36 anni dall’approvazione della legge 194.

A 36 anni dall’approvazione della 194 i collettivi della rete cittadina #iodecido ripartono dal Policlinico Umberto I, luogo simbolo della lotta per la salute sessuale e delle donne, per rivendicare la possibilità concreta di un aborto libero, gratuito e garantito; dell’aborto farmacologico e la completa accessibilità alla pillola del giorno dopo per una sessualità consapevole e autodeterminata. La legge 194 in questi anni è stata svuotata di contenuto dall’enorme presenza di medici obiettori (nel Lazio il 90%). Dalla Spagna all’Italia passando per la Grecia e il Portogallo le politiche dell’austerity si abbattono violentemente sul corpo delle donne. #iodecido sul mio corpo! Rete cittadina io decido


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GIORGIANA VIVE NELLE NOSTRE LOTTE

Oggi alle 18 saremo a Ponte Garibaldi per ricordare Giorgiana Masi, assassinata il 12 maggio 1977 dai fascisti in divisa dell’allora ministro dell’interno Cossiga.

Giorgiana, come molte compagne e compagni, quel giorno decise di scendere in strada nell’anniversario della vittoria referendaria sul divorzio, nonostante il divieto del governo a manifestare. Divieto da far rispettare ad ogni costo, tanto che il ministro dell’interno decise di schierare migliaia di guardie in assetto di guerra, affiancati da agenti in borghese delle squadre speciali.

Dopo una giornata di lotta per le strade di Roma, durante una carica, due ragazze vennero raggiunte da proiettili sparati ad altezza uomo.

Elena Ascione rimase ferita a una gamba. Giorgiana Masi, 19 anni, studentessa del liceo Pasteur, venne centrata alla schiena e morì assassinata.

Oggi come ieri, continuiamo ad attraversare le strade le une accanto alle altre, perchè le strade libere le fanno le donne che le vivono. 
Oggi come ieri vogliamo scegliere sulla nostra salute, sul nostro corpo e sulla nostra sessualità.

Giorgiana vive nelle nostre lotte.

Cagne sciolte.

Ps: per permettere a tutt* di esserci, la conversazione di inglese inizierà alle 19,30 dalle Cagne Sciolte in via ostiense 137/b

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Dom 11/05 dalle 18 proiezione ‘ILLEGAL’ + trattoria vegan

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Domenica 4 maggio – Serata No Tav: cena vegan, proiezioni, letture e discussione

notavcagne web

 

spot radio domenica 4 maggio – serata no tav

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#12A Lorenzo, Matteo, Simon e Ugo liberi subito!

Complici e solidali con i\le ferit* e gli arrestati del 12 aprile.

Contro la repressione e la violenza dello stato padre\padrone che pretende di educarci  con manganelli e manette, la risposta è ogni giorno nelle lotte e nella solidarietà.

Liberi tutti, libere tutte!

Mercoledi 16 dalle ore 11 presidio solidale al carcere di Regina Coeli durante gli interrogatori di convalida dei quattro detenuti, non lasciamoli soli!

Lorenzo, Matteo, Simon  e Ugo liberi subito!

 

Scriviamo lettere e telegrammi a
Marabini Lorenzo
Matteo Pompea
Ugo Esposito
Simon Kanka

Casa circondariale di Roma Regina Coeli Via della Lungara, 29, 00165

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