Riceviamo e diffondiamo con piacere:
Traduzione del testo “Feminisme Pute” scritto dallo STRASS (Syndicat du TRAvail Sexuel).
Femminismo puttana
Questo testo è stato presentato alla Sorbona in occasione della Giornata Internazionale per i Diritti delle Donne. Lo STRASS è stato invitato dal Block Offensif Antisexiste (BOA), collettivo di studenti femministe, a rispondere alla domanda:
Come riappropriarsi del proprio corpo in quanto donne o minorità di genere in una società
capitalista, sessista e patriarcale?
In un periodo di rimonta del femminismo istituzionale che giudica la nostra attività e condanna a rotazione sia la “sgualdrina”, sia la “vittima” sia il cliente “prostitutore”, la nostra lotta per il riconoscimento del lavoro sessuale, soprattutto in quanto donne cis e trans, deve essere guidata non solamente dalla nostra esperienza personale, ma anche da una riflessione storica sul legame tra la lotta femminista contro la dominazione patriarcale delle donne e il lavoro sessuale. L’analisi che segue permette di mettere in luce l’importanza delle lotte femministe intersezionali nella riappropriazione del nostro corpo e dei nostri diritti e di leggere il modo in cui il femminismo istituzionale dedito all’Uguaglianza Uomo-Donna – nel suo tentativo di esercitare un controllo sulle
minoranze e sui nostri diritti e sui nostri corpi e di dettare la sua “visione della dignità” – esercita sulle lavoratrici del sesso una dominazione identica a quella patriarcale.
Per definire quello che potrebbe essere un femminismo che parte dai nostri vissuti di sex worker, che potremmo anche chiamare “femminismo puttana”, affronteremo 3 elementi di riflessione:
-1) rendere visibili i servizi sessuali come lavoro che le donne sono costrette a svolgere nel
sistema patriarcale e nel sistema capitalista
-2) comprendere il ruolo dell’insulto “puttana”, della “puttanofobia” o dello “stigma della
puttana” come forme di controllo sessista sul corpo delle donne
-3) considerare il sex work come lavoro di genere: considerare come lavoro la performance della femminilità nella vita di tutti i giorni, sia sul lavoro e compreso sia nella sfera definita privata e “fuori dal lavoro”.
Il lavoro sessuale come lavoro
Le prime organizzazioni di lavoratrici del sesso sono nate negli anni ‘70, nell’ondata dei movimenti delle donne di quel periodo. In quel momento, delle militanti e teoriche femministe hanno analizzato la divisione sessuale del lavoro, soprattutto attraverso l’esempio del lavoro domestico relegato nella sfera privata, e reso invisibile da formulazioni quali “la mamma non lavora perché sta a casa a occuparsi dei bambini”.
In paesi come l’Italia, il Quebec o il Regno Unito, gruppi di donne hanno rivendicato il reddito per il lavoro domestico per denunciare questa ingiunzione al lavoro gratuito.
Nel 1975, nel momento in cui le prostitute francesi occupano le chiese per protestare
contro le leggi repressive che subivano, il collettivo inglese delle prostitute (l’English Collective of Prostitutes) stringeva alleanze con il movimento in favore del reddito per il lavoro domestico.
Tra queste femministe, Selma James e Silvia Federici hanno rivendicato il riconoscimento della prostituzione come lavoro, ritenendo che i servizi sessuali facciano anch’essi dei compiti che spettano “naturalmente” al ruolo definito femminile della sposa e della madre. Queste femministe sostenevano che il movimento delle prostitute, rendendo visibile la prostituzione come lavoro, aiutava l’insieme delle donne, che potevano così meglio negoziare, per il proprio piacere e interesse, le condizioni di questa imposizione alla sessualità, o per rifiutarla più facilmente. Questa ingiunzione a rendere dei servizi sessuali agli uomini è un tratto considerato come universale.
È in ogni caso la conclusione della ricerca dell’antropologa Paola Tabet che ha
teorizzato quello che ha chiamato il “continuum dello scambio economico-sessuale”. Per
riassumere, Tabet osserva che in tutte le società che ha studiato, le donne sono private della maggior parte delle ricchezze e dei mezzi di produzione detenuti in generale dagli uomini. Per vivere o sopravvivere, sono costrette a utilizzare il loro sesso e la loro sessualità come mezzo di scambio con gli uomini per accedere alle risorse o ai vantaggi come la sicurezza o una migliore posizione sociale. All’interno di questo continuum si situa la prostituzione, ma anche, in ugual misura, la maggior parte delle istituzioni del patriarcato che disciplinano e inquadrano le possibilità di incontri sessuali tra donne e uomini, ossia: il matrimonio, la coppia o gli appuntamenti amorosi.
Le prostitute non sono più quindi una categoria a parte dalla altre donne, ma sono esposte ad un’oppressione comune attraverso l’estorsione di servizi sessuali.
In cosa la nostra oppressione sarebbe specifica rispetto a quella delle altre donne? Ci arriveremo nel secondo punto.
La puttanofobia o lo stigma della puttana
La psicologa Gail Pheterson, altra grande femminista alleata dei movimenti delle prostitute dagli anni ‘70, ha analizzato i rapporti donne/uomini attraverso quello che ha denominato “prisma della prostituzione”. In seguito ai lavori di Tabet, Pheterson definisce la prostituzione come differente dalle altre forme di scambio economico-sessuale in quanto parte stigmatizzata e illegittima del continuum. La ragione di questa stigmatizzazione risiede nel fatto che, nella prostituzione, le donne osano esigere un compenso finanziario o materiale per i servizi sessuali resi e che, facendo ciò, si
rende visibile il fatto che si tratterebbe di un lavoro e non di un quadro di scambi “naturali”.
Pheterson mostra, tuttavia, che lo “stigma della puttana” non riguarda solo le prostitute ma è un’arma del patriarcato contro tutte le donne. Infatti, la stigmatizzazione della figura della prostituta, permette di creare una identità di genere separata all’interno della classe delle donne, che ha come funzione l’essere un contro-modello agli status legittimi, per esempio, della sposa o della madre. Le donne sono così divise schematicamente nel patriarcato tradizionale in due blocchi principali, a seconda del tipo di lavoro sessuale al quale sono assegnate: lavoro sessuale di riproduzione o lavoro sessuale che ha come finalità la produzione di piacere e divertimento (ovviamente maschile).
Questi due modelli di lavoro sessuale sono distinti perché gli uomini vogliono assicurarsi della trasmissione dei loro geni e del loro cognome, limitando quindi lo scambio sessuale delle donne a un solo uomo nella sfera privata o estendendola a tutti gli uomini
nella sfera pubblica.
L’insulto “puttana” non serve solo a stigmatizzare le lavoratrici del sesso ma anche tutte le
iniziative, i gesti di autodeterminazione, le le forme di ribellione, le forme di trasgressione di genere delle donne, in particolare il fatto di occupare gli spazi pubblici e notturni riservati tradizionalmente agli uomini, dove sono tollerate solo le “troie” disponibili per il loro divertimento.
Di fronte allo stigma della puttana, la strategia femminista “mainstream” è di incitare le donne a distinguersi il più possibile dalla categoria “puttana”, andando fino a cercare di abolirla. Tuttavia, finché la struttura economica del patriarcato e del capitalismo persisterà, ci saranno sempre delle donne che avranno bisogno, o troveranno interesse, a guadagnare soldi tramite il lavoro sessuale. Al posto di lottare contro la stigmatizzazione, l’approccio abolizionista ha piuttosto la tendenza a rinforzarla e a mantenere la dicotomia tra “donne normali” e “donne particolari”.
Una strategia per lottare contro la stigmatizzazione è stata quella di coniare il termine “lavoro sessuale” al posto di prostituzione. Questo termine ha come vantaggio, come si è visto, di denaturalizzare l’assegnazione ai servizi sessuali e di rendere visibile questo compito come lavoro.
Questa espressione permette anche di riconoscere la capacità di agire delle donne, e di organizzarsi per esigere dei diritti e protezioni conquistati dai movimenti operai. Infine, permette di riunire diverse categorie di lavoratrici del sesso in maniera più ampia di quanto faccia la prostituzione tradizionale, forme che sono solitamente isolate e divise secondo le loro modalità di lavoro.
Un’altra strategia di lotta contro lo stigma della puttana è quella di riappropriarcene
orgogliosamente. Quando diciamo che siamo delle puttane e che ne siamo fiere, non portiamo l’attenzione sulle condizioni di esercizio del lavoro sessuale o sui nostri sentimenti riguardo a questo. Qualunque siano le nostre esperienze, buono o cattive, sia che amiamo sia che detestiamo il nostro lavoro, non dobbiamo giustificarcene. Quello che noi diciamo tramite questo messaggio di fierezza, è che mai ci lasceremo ridurre dalla vergogna o dal silenzio, perché come vedremo adesso nel terzo e ultimo punto, lo stigma della puttana ha anche come scopo di impedirci di rivelare quello che sappiamo sui rapporti di genere attraverso la nostra esperienza di confronto quotidiano con gli
uomini.
Il lavoro sessuale come lavoro di genere
Una parte importante del lavoro sessuale consiste nel performare il genere, perché lo spazio della sessualità è uno di quegli spazi dove le possibilità di espressione di genere diventano più numerose, soprattutto nelle industrie del sesso contemporanee e mondializzate, risultato del liberalismo, dove le domande si diversificano e dove le fonti d’accesso a certe forme di servizi sessuali come la pornografia si democratizzano.
Il lavoro sessuale evolve in effetti come il resto della società, in negativo ma qualche volta in positivo, in particolar modo grazie all’apporto delle femministe e delle correnti dette “pro-sex” che provano a cambiare i mestieri del sesso dall’interno. Benché le
espressioni di tipi di femminilità (o di mascolinità) siano le più diverse e maggiori libertà siano possibili soprattutto con lo sviluppo delle “nicchie commerciali” , certe rappresentazioni di genere possono essere anche molto più rigide e stereotipate. In ogni caso, è evidente a molte lavoratrici sessuali che la sessualità, la seduzione o le emozioni che mettono in campo appartengono a un lavoro di produzione di una femminilità.
Quando si è femministe puttane e si lavora con la sessualità, si osserva forse più rapidamente e facilmente la fatticità del genere e della femminilità che si performa nel quotidiano. Il trucco, il vestiario, gli accessori, tutta una serie di supporti materiali vengono a volte a sostenere un edificio totalmente costruito al servizio delle fantasie e delle rappresentazioni. Ma a forza di performare questa femminilità nel contesto del lavoro, diventa a volte meno sopportabile farlo al di fuori di esso, e per di più, gratuitamente. Perché dover essere ben vestite, sexy, dover sorridere, prestare
attenzione e pazienza alla conversazione degli uomini se non ci pagano per farlo?
Altra osservazione, questa mobilitazione della femminilità non è unicamente comune alle lavoratrici sessuali. In molte abbiamo svolto altri lavori nei quali dovevamo fare attenzione al nostro aspetto, al nostro abbigliamento, ai nostri comportamenti. Inoltre, anche nelle più alte sfere del potere si esige per esempio che le donne politiche siano ben vestite, o che subiscano ogni sorta di commento sul loro aspetto fisico o le emozioni che esprimono o non esprimono pubblicamente. E anche lì si ritrova una parte del lavoro specifico che le donne sono tenute a realizzare gratuitamente. In effetti, le donne non sono pagate meglio degli uomini quando devono passare dei minuti supplementari a “prepararsi” per “presentarsi” al lavoro, quando devono rispondere alle esigenze di un lavoro
emozionale che non è richiesto allo stesso modo agli uomini. In generale, le donne sono molto meno pagate.
Per ritornare al lavoro sessuale, quello che esso rivela è anche la produzione della mascolinità da parte dei clienti uomini. Come alcune femministe della “cura” hanno sottolineato, il lavoro sessuale è un lavoro di cura, che si situa nel quadro generale del lavoro della riproduzione sociale. Ciò significa che affinché gli uomini siano performanti al lavoro, nel lavoro della sfera pubblica considerato come produttivo e che è retribuito, essi possano contare sul lavoro gratuito e invisibile delle donne, o su quello delle professioniste della cura e dell’attenzione, che in generale sono altre donne. In questa maniera, la mascolinità forte e performante nella sfera pubblica, si rivela invece fragile, da consolare e da confortare attraverso il lavoro di attenzione e di cura, tra cui il lavoro sessuale.
I testi della scrittrice e prostituta Grisélidis Réal rivelano in gran parte questa “fragilità maschile” attraverso la sessualità. Un uomo che deve mantenere un ruolo sociale, tanto più se si tratta di una posizione di potere, non può permettersi che siano esposti eventuali comportamenti sessuali in contraddizione con quello che rappresenta. Essere penetrati sessualmente, farsi pisciare addosso, essere sottomessi, non essere considerati come performanti sessualmente, non riuscire a farselo diventare duro a comando, avere una sessualità che non permette di fare dei figli e quindi di essere produttivi e riconosciuti come padri. Tutte queste cose possono essere fatte con una lavoratrice
sessuale che garantisce di non giudicare. Inoltre, come abbiamo visto, la stigmatizzazione della puttana permette di impedire qualsiasi espressione da parte sua, o di invalidare la sua parola nel caso in cui quest’ultima non resti in silenzio.
Per concludere, e per dare delle prospettive più concrete su quello che noi viviamo attualmente, la penalizzazione dei clienti (n Francia il 13 aprile 2016 è entrata in vigore la legge che penalizza i clienti) non permette di rovesciare i rapporti di genere. Ci riporta invece all’ingiunzione ad una sessualità detta gratuita e naturale, senza renderci conto o negando la parte di lavoro che pesa ancora sul corpo delle donne. La stigmatizzazione non diminuisce – tutto il contrario! – perché siamo spinte alla vergogna e al pentimento attraverso un “percorso di uscita dalla prostituzione” che è l’unica possibilità per la nostra condizione. Nessuno strumento reale è messo in campo per permettere di migliorare le nostre condizioni economiche e per rifiutare lo sfruttamento del lavoro. Ci fanno capire solo che è preferibile farsi sfruttare altrove che nel lavoro sessuale. La penalizzazione ha ironicamente ridotto ancora di più il nostro potere, addirittura ha invertito il rapporto di forza in favore dei clienti, perché ci ha precarizzate esponendoci all’obbligo di accettare degli uomini o delle condizioni che prima potevamo rifiutare.
Per riappropriarci del potere sui nostri corpi, per lottare contro le violenze e lo sfruttamento, noi continuiamo a credere che un approccio sindacale sia più efficace degli interventi “polizieschi” e detentivi dello stato. Noi continuiamo a credere in un femminismo basato sull’autodeterminazione delle donne, che non vanifichi la loro parola né le infantilizzi. Noi crediamo anche che rendere visibile il lavoro delle donne è il miglior strumento per permettere e organizzare infine lo sciopero delle donne.
Link al testo originale: http://strass-syndicat.org/feminisme-pute/